Archivi del mese: agosto 2020

Daniele Rielli, Odio, una vita morale era impossibile

Odio di Daniele Rielli

Odio di Daniele Rielli
Mondadori 2020, 528 pagine; 20 €; ebook 10,99 €

«Nella sequenza finale […], io giocavo sul tappeto con il nuovo modellino  […]. Mio padre con un toscano in bocca faceva scattare l’accendino, lo spegneva e lo riaccendeva. Lo spegneva e lo riaccendeva».

Non so se “Lascia stare la gallina” (2015) di Daniele Rielli sia un libro di culto, non l’avevo mai sentito nominare, l’ho recuperato a metà prezzo via Libraccio dopo aver letto “Odio” uscito per Mondadori quest’anno (ho deciso di comprarlo grazie all’intervista all’autore di Gabriele Ferraresi su Esquire). Ricordavo il clamore suscitato da “Quitaly” (2014), quando Rielli pubblicava sotto lo pseudonimo di Quit the Doner. Anche il protagonista di “Odio”, Marco De Sanctis, inizia a farsi conoscere come blogger dopo essere uscito innocente da una vicenda giudiziaria da giovane. L’abilità retorica di De Sanctis – impegnato come organizzatore di eventi a Bologna ma destinato allo stato di mera sussistenza peculiare dei trentenni di oggi – gli fa fare il salto di qualità quando viene notato dal Maestro.

Il Maestro, angel investor impegnato a dare una mano al governo Renzi nella digitalizzazione del Paese, assume De Sanctis (DeSa) come ghost writer per gli articoli a sua firma sui giornali. Questo dà modo alla voce narrante del romanzo, il sopracitato DeSa, di conoscere sia il mondo dei salotti romani sia la galassia di start-up che orbita su Milano. L’ulteriore svolta per De Sanctis – quella da comprimario ad apparente protagonista di “Odio” – è riassumibile in questo passaggio: “[Decisi che] Io sarei diventato un mercante di dati, avrei venduto agli inserzionisti l’attenzione delle persone, attenzione già guadagnata da altri”. Nota: è a questo punto che la vicenda, raccontata a posteriori, inizia a saldarsi al tempo presente.

Romanzo realistico per l’80% è un peccato “Odio” si fermi sul più bello, quando Rielli tira le fila della sua rielaborazione degli anni zero e dieci del XXI secolo facendoci solo assaggiare lo sviluppo della storia. Curioso come, se ci fosse anche la casa di un pittore nella valle trentina dove si ritira il protagonista, DeSa potrebbe ricordare il Menshiki del Murakami de “L’assassino del commendatore”, sebbene il personaggio di gran lunga più interessante di “Odio”, almeno per me, rimarrà per sempre (o Rielli ci regalerà un seguito?) il Maestro, se ispirato a qualche persona reale non voglio nemmeno saperlo, non è importante, che se la gioca con Moriarty di Conan Doyle in quanto a carisma e obiettivi.

Viceversa, a meno che non siate fan del Piccolo de “La separazione del maschio”, il personaggio più debole di “Odio” mi pare essere proprio Marco De Sanctis, cui c’è da credere che nel momento in cui non potrà più essere in grado di possedere una donna – come racconta in un famoso aneddoto Freud a proposito dei bosniaci: “Tu lo sai, Herr, quando non si può più far quello, la vita non ha valore” – perderà la voglia di vivere. Se infatti il lettore maschio bianco etero tipo sulla soglia dei quaranta può immedesimarsi in De Sanctis senza troppa fatica fin dalle prime pagine, il rischio che diventi alla lunga stucchevole l’elenco delle conquiste alla “Madamina, il catalogo è questo…” non è da escludere.

In cento parole: “Odio” è un riassunto sapiente degli ultimi quindici anni del nostro Paese e ha il merito di spiegare dall’interno, oltre a quello che più volte è stato già raccontato (l’ambiente dell’accademia, della politica, della carta stampata ecc.), modi di fare imprenditoria che perlopiù rimangono fuori dalla narrazione in Italia, esclusi casi eclatanti (ad esempio, chi avrebbe mai appreso di Bending Spoons se non fosse stato per l’app Immuni?) o che pochi altri hanno descritto finora, penso a Le vite potenziali di Francesco Targhetta. E adesso tocca leggere “Lascia stare la gallina” e aspettare il prossimo di Rielli.

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Marta Barone, Città sommersa, e mio padre era sempre due o tre passi avanti a me

Città sommersa di Marta Barone

Città sommersa di Marta Barone
Bompiani 2020, 18 €; ebook 9,99 €

«Immagini di mio padre […]. L’oro e il rosso profondo della Madonna della Misericordia tardogotica che allargava il mantello in un museo di Arezzo, e lui fermo lì davanti, che si girava a guardarmi con un sorriso pieno di incanto […]».

Non ne volevo sapere di leggere un’altra ricostruzione degli anni Settanta. Eppure ho comprato “Città sommersa” di Marta Barone. Incoerenza? Può darsi. Essere coerenti, si capisce leggendo queste trecento pagine, è un peso che ti può schiantare, se non hai dentro di te un’ideale che va oltre i partiti, come L.B., il padre della voce narrante o, viceversa, se non sei pronto a riciclarti, a passare magari a quella Chiesa che i movimenti d’estrema sinistra di cinquant’anni fa ricordano tanto. Liberi dai dogmi per essere in fondo assoggettati ad altri dogmi ancora più severi: “Credevano in quello che facevano e la maggior parte di loro non ha mai fatto del male a nessuno, se non a sé stessi. Sono stati divorati dalla Storia” (dice lo scrittore che crede di non averne fatto parte).

Fosse solo rievocazione storica Marta Barone avrebbe già fatto un gran lavoro. Traspare la fatica della ricerca a osservare in controluce “Città sommersa”: la Torino degli anni Settanta riemerge dal fondo del lago del tempo con colpi di pennello precisi nelle tinte del bianco e del nero e, per gli episodi più recenti, delle foto dai colori alterati degli anni Ottanta. Il romanzo, sempre che si possa fare affidamento sulla narratrice, è una profezia che si auto avvera. L.B. che dice alla figlia che un giorno scriverà un libro su di lui. Perché se è vero che Leonardo Barone ha avuto una decent life, come sostiene, forse a ragione, un insopportabile che l’aveva conosciuto bene, è anche vero che la sua esistenza è stata larger than life.

E se altrove l’espediente per raccontare una storia è un manoscritto ritrovato, tutto parte in “Città sommersa” da una memoria difensiva di L.B. che si scopre essere stato soggetto a un processo. “Per quanto non fossi bene in grado di definire le sue virtù, di certo non sembrava portato al crimine. Era finita lì, in un improbabile impeto di compassione infantile per lui, che sapevo esser debole, e quindi, indiscutibilmente, vittima”. E dunque, anche noi lettori, come Marta Barone, ci arrovelleremo per tutto il libro su un interrogativo: L.B. ha o non ha aiutato consapevolmente uno della fazione armata dei movimenti di estrema sinistra nella sua qualità di medico? Quanto questo sia o meno importante si capirà durante la lettura.

Mentre, senza un disegno di riferimento, Marta Barone tenta di ricostruire il puzzle da mille pezzi raffigurante l’esistenza del padre, intanto, non si può che solidarizzare con lei.Del resto non saprò mai niente. Non saprò mai quando scoprì i libri, se aveva un posto segreto dove rifugiarsi a fantasticare e a leggere da solo, […] che cosa infine lo rese diverso da tutti gli altri […]. Forse […] era così già alla nascita”. E se forse un appunto le si può muovere, è che conoscere così a fondo i propri genitori equivarrebbe a eleggerli come propri amici [quanto è vero che si dovrebbe scriverne di più di romanzi sull’amicizia, Marta, quand’è che ne scrivi uno? ndr] quando per loro natura, almeno per chi scrive, sono altro.

Comprendere i propri genitori. E chi ci è mai riuscito? Vi ci si può provare, specie quando il rapporto con loro è stato tormentato. Quando in extremis si tenta di recuperare quel che durante la nostra esistenza crediamo di avere sprecato o perduto. “Sapevo che anche lei, come altri, pensava che io non avessi voluto abbastanza bene a mio padre. Diciamo che non gli avessi voluto bene nel modo giusto […]. E forse non mi considerava titolata […] ad andare a chiedere un racconto su di lui”. “Città sommersa” è un omaggio che pochi figli possono dire di aver tributato all’ombra di un padre che l’acqua del Lete ha già bevuto.

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