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Niklas Natt och Dag, 1794, si mormora che la fine è ormai vicina

1794 di Niklas Natt och Dag

1794 di Niklas Natt och Dag
Traduzione di Gabriella Diverio, Barbara Fagnoni e Stefania Forlani
Einaudi editore 2020, 544 pagine; 20 €; ebook 9,99 € (copia ricevuta in omaggio dall’editore)

Cardell allarga le braccia in un gesto di rabbia e delusione.
– Ma i cieli e l’inferno si svuotano dei loro abitanti solo per prendersi gioco di noi miserabili esseri umani? Quando non sono frutto dell’immaginazione, sono farse.

A distanza di un anno, è proprio il caso di dirlo, Niklas Natt och Dagg ci riporta nella Stoccolma di fine Settecento eloquentemente dipinta in “1793”. Cecil Winge e Mickel Cardell erano riusciti a dare un nome e una sepoltura al cadavere di moncherino d’uomo ritrovato nella cloaca della capitale dopo poco meno di cinquecento pagine di indagini e colpi di scena. Lo scrittore svedese rimane sulla stessa misura per raccontarci quel che è accaduto dopo la chiusura del caso e la morte di Winge per tisi. L’ex soldato non l’ha presa bene: “Molti sostengono che sia coperto di debiti e lavori senza sosta al soldo di chicchessia, ma che sia costretto a usare ogni singolo spicciolo che si guadagna per scrollarsi gli scagnozzi di dosso e tenersi lontano dalla gattabuia”.

“1794” è la dimostrazione di come non solo il Settecento sia un secolo spietato ma altrettanto senza pietà sia Natt och Dag con i suoi personaggi. Per carità, lo si era già ben compreso nel volume precedente, dove non aveva utilizzato nessun escamotage per salvare dalla tomba il suo Sherlock Holmes, il brillante procuratore Cecil Winge. E infatti, terminato il prologo lungo centotrenta pagine dove conosciamo il nobile erede della magione di campagna Tre Rosor e la sua disgrazia (ovvero il motore che metterà in moto la vicenda al centro di “1794”) il primo interrogativo è proprio questo. Come farà Cardell, il nostro Watson, a risolvere il caso questa volta? La risposta implicita è che se c’è – o c’è stato – uno Sherlock c’è anche un Mycroft.

E perdonatemi se insisto su questo aspetto, è un debito evidente che già avevo sottolineato scrivendo di “1793”. Natt och Dag si presta volentieri a utilizzare il duo “investigatore e aiutante” del romanzo giallo che ci accompagna dalla pubblicazione di “Uno studio in rosso” (1887). Il rapporto tra Winge e Cardell, in parte rovesciato rispetto al primo volume, è anche questa volta uno degli aspetti che più mi hanno colpito durante la lettura: “Oserei dire che Cardell vede la possibilità di rivivere il passato. Faresti bene a ricordare che la sua lealtà non è rivolta a te, ma allo spettro di colui che non è più tra noi. E in questo sta il pericolo. Le sue azioni vengono dal cuore, e tendono a essere incostanti e imprevedibili. Fai attenzione”.

Suddiviso come il precedente in quattro parti, sostituito l’epistolario con un memoriale per quel che riguarda il prologo, i protagonisti di “1794” sono in realtà tre: Winge, Knapp (sì, torna anche Anna Stina, naturalmente) e Cardell. In apparenza Natt och Dag questa volta rinuncia al suo quarto personaggio (la storia) per il suo noir ma ci si rende poi conto che il prologo, ambientato in gran parte nella colonia svedese dell’isola caraibica di Saint-Barthélemy, le rende giustizia e abbia avuto bisogno di un gran lavoro di ricerca. Alzi la mano chi si ricordava che pure la Svezia aveva cercato il suo posto al sole nel mar dei Caraibi. E nelle colonie, com’è noto, ci finivano sia i santi sia i peggiori peccatori, come scopriranno i lettori.

“1794” mi è piaciuto come “1793”? Non esattamente. Mi ha fatto arrabbiare molto. Perché se il primo volume si può considerare autoconclusivo non penso si possa considerare tale “1794”. Lascia troppi interrogativi aperti cui varrebbe la pena rispondere. Ed è cupo, cupissimo. Senza scampo (?). Sta arrivando un terzo romanzo, come ci ricorda l’aletta della quarta di copertina, ma non so proprio come Natt och Dag potrà tornarmi in simpatia dopo quello che ha fatto ai suoi personaggi in “1794”. Consigliato dunque a chi si aspetta emozioni forti, siamo sempre dalle parti delle peggiori abiezioni umane, di sicuro non a chi tende a partecipare o tifare per i protagonisti delle storie che legge.

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Daniele Rielli, Odio, una vita morale era impossibile

Odio di Daniele Rielli

Odio di Daniele Rielli
Mondadori 2020, 528 pagine; 20 €; ebook 10,99 €

«Nella sequenza finale […], io giocavo sul tappeto con il nuovo modellino  […]. Mio padre con un toscano in bocca faceva scattare l’accendino, lo spegneva e lo riaccendeva. Lo spegneva e lo riaccendeva».

Non so se “Lascia stare la gallina” (2015) di Daniele Rielli sia un libro di culto, non l’avevo mai sentito nominare, l’ho recuperato a metà prezzo via Libraccio dopo aver letto “Odio” uscito per Mondadori quest’anno (ho deciso di comprarlo grazie all’intervista all’autore di Gabriele Ferraresi su Esquire). Ricordavo il clamore suscitato da “Quitaly” (2014), quando Rielli pubblicava sotto lo pseudonimo di Quit the Doner. Anche il protagonista di “Odio”, Marco De Sanctis, inizia a farsi conoscere come blogger dopo essere uscito innocente da una vicenda giudiziaria da giovane. L’abilità retorica di De Sanctis – impegnato come organizzatore di eventi a Bologna ma destinato allo stato di mera sussistenza peculiare dei trentenni di oggi – gli fa fare il salto di qualità quando viene notato dal Maestro.

Il Maestro, angel investor impegnato a dare una mano al governo Renzi nella digitalizzazione del Paese, assume De Sanctis (DeSa) come ghost writer per gli articoli a sua firma sui giornali. Questo dà modo alla voce narrante del romanzo, il sopracitato DeSa, di conoscere sia il mondo dei salotti romani sia la galassia di start-up che orbita su Milano. L’ulteriore svolta per De Sanctis – quella da comprimario ad apparente protagonista di “Odio” – è riassumibile in questo passaggio: “[Decisi che] Io sarei diventato un mercante di dati, avrei venduto agli inserzionisti l’attenzione delle persone, attenzione già guadagnata da altri”. Nota: è a questo punto che la vicenda, raccontata a posteriori, inizia a saldarsi al tempo presente.

Romanzo realistico per l’80% è un peccato “Odio” si fermi sul più bello, quando Rielli tira le fila della sua rielaborazione degli anni zero e dieci del XXI secolo facendoci solo assaggiare lo sviluppo della storia. Curioso come, se ci fosse anche la casa di un pittore nella valle trentina dove si ritira il protagonista, DeSa potrebbe ricordare il Menshiki del Murakami de “L’assassino del commendatore”, sebbene il personaggio di gran lunga più interessante di “Odio”, almeno per me, rimarrà per sempre (o Rielli ci regalerà un seguito?) il Maestro, se ispirato a qualche persona reale non voglio nemmeno saperlo, non è importante, che se la gioca con Moriarty di Conan Doyle in quanto a carisma e obiettivi.

Viceversa, a meno che non siate fan del Piccolo de “La separazione del maschio”, il personaggio più debole di “Odio” mi pare essere proprio Marco De Sanctis, cui c’è da credere che nel momento in cui non potrà più essere in grado di possedere una donna – come racconta in un famoso aneddoto Freud a proposito dei bosniaci: “Tu lo sai, Herr, quando non si può più far quello, la vita non ha valore” – perderà la voglia di vivere. Se infatti il lettore maschio bianco etero tipo sulla soglia dei quaranta può immedesimarsi in De Sanctis senza troppa fatica fin dalle prime pagine, il rischio che diventi alla lunga stucchevole l’elenco delle conquiste alla “Madamina, il catalogo è questo…” non è da escludere.

In cento parole: “Odio” è un riassunto sapiente degli ultimi quindici anni del nostro Paese e ha il merito di spiegare dall’interno, oltre a quello che più volte è stato già raccontato (l’ambiente dell’accademia, della politica, della carta stampata ecc.), modi di fare imprenditoria che perlopiù rimangono fuori dalla narrazione in Italia, esclusi casi eclatanti (ad esempio, chi avrebbe mai appreso di Bending Spoons se non fosse stato per l’app Immuni?) o che pochi altri hanno descritto finora, penso a Le vite potenziali di Francesco Targhetta. E adesso tocca leggere “Lascia stare la gallina” e aspettare il prossimo di Rielli.

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Marta Barone, Città sommersa, e mio padre era sempre due o tre passi avanti a me

Città sommersa di Marta Barone

Città sommersa di Marta Barone
Bompiani 2020, 18 €; ebook 9,99 €

«Immagini di mio padre […]. L’oro e il rosso profondo della Madonna della Misericordia tardogotica che allargava il mantello in un museo di Arezzo, e lui fermo lì davanti, che si girava a guardarmi con un sorriso pieno di incanto […]».

Non ne volevo sapere di leggere un’altra ricostruzione degli anni Settanta. Eppure ho comprato “Città sommersa” di Marta Barone. Incoerenza? Può darsi. Essere coerenti, si capisce leggendo queste trecento pagine, è un peso che ti può schiantare, se non hai dentro di te un’ideale che va oltre i partiti, come L.B., il padre della voce narrante o, viceversa, se non sei pronto a riciclarti, a passare magari a quella Chiesa che i movimenti d’estrema sinistra di cinquant’anni fa ricordano tanto. Liberi dai dogmi per essere in fondo assoggettati ad altri dogmi ancora più severi: “Credevano in quello che facevano e la maggior parte di loro non ha mai fatto del male a nessuno, se non a sé stessi. Sono stati divorati dalla Storia” (dice lo scrittore che crede di non averne fatto parte).

Fosse solo rievocazione storica Marta Barone avrebbe già fatto un gran lavoro. Traspare la fatica della ricerca a osservare in controluce “Città sommersa”: la Torino degli anni Settanta riemerge dal fondo del lago del tempo con colpi di pennello precisi nelle tinte del bianco e del nero e, per gli episodi più recenti, delle foto dai colori alterati degli anni Ottanta. Il romanzo, sempre che si possa fare affidamento sulla narratrice, è una profezia che si auto avvera. L.B. che dice alla figlia che un giorno scriverà un libro su di lui. Perché se è vero che Leonardo Barone ha avuto una decent life, come sostiene, forse a ragione, un insopportabile che l’aveva conosciuto bene, è anche vero che la sua esistenza è stata larger than life.

E se altrove l’espediente per raccontare una storia è un manoscritto ritrovato, tutto parte in “Città sommersa” da una memoria difensiva di L.B. che si scopre essere stato soggetto a un processo. “Per quanto non fossi bene in grado di definire le sue virtù, di certo non sembrava portato al crimine. Era finita lì, in un improbabile impeto di compassione infantile per lui, che sapevo esser debole, e quindi, indiscutibilmente, vittima”. E dunque, anche noi lettori, come Marta Barone, ci arrovelleremo per tutto il libro su un interrogativo: L.B. ha o non ha aiutato consapevolmente uno della fazione armata dei movimenti di estrema sinistra nella sua qualità di medico? Quanto questo sia o meno importante si capirà durante la lettura.

Mentre, senza un disegno di riferimento, Marta Barone tenta di ricostruire il puzzle da mille pezzi raffigurante l’esistenza del padre, intanto, non si può che solidarizzare con lei.Del resto non saprò mai niente. Non saprò mai quando scoprì i libri, se aveva un posto segreto dove rifugiarsi a fantasticare e a leggere da solo, […] che cosa infine lo rese diverso da tutti gli altri […]. Forse […] era così già alla nascita”. E se forse un appunto le si può muovere, è che conoscere così a fondo i propri genitori equivarrebbe a eleggerli come propri amici [quanto è vero che si dovrebbe scriverne di più di romanzi sull’amicizia, Marta, quand’è che ne scrivi uno? ndr] quando per loro natura, almeno per chi scrive, sono altro.

Comprendere i propri genitori. E chi ci è mai riuscito? Vi ci si può provare, specie quando il rapporto con loro è stato tormentato. Quando in extremis si tenta di recuperare quel che durante la nostra esistenza crediamo di avere sprecato o perduto. “Sapevo che anche lei, come altri, pensava che io non avessi voluto abbastanza bene a mio padre. Diciamo che non gli avessi voluto bene nel modo giusto […]. E forse non mi considerava titolata […] ad andare a chiedere un racconto su di lui”. “Città sommersa” è un omaggio che pochi figli possono dire di aver tributato all’ombra di un padre che l’acqua del Lete ha già bevuto.

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Irene Soave, Galateo per ragazze da marito, così è, signorine mie

Galateo per ragazze da marito Soave

Galateo per ragazze da marito di Irene Soave

Galateo per ragazze da marito di Irene Soave
Bompiani 2019, 17 €; ebook 9,99 €

«Maritarsi […] è un evento centrale in ogni galateo perché riguarda un momento centrale di ogni vita umana: l’uscita dalla famiglia e la collocazione nella società. Per una donna […] era anche l’unico modo lecito di collocarvisi».

Coraggio e tenacia. Sono le qualità che ha dimostrato Irene Soave nella creazione del suo “Galateo per ragazze da marito”. I libri infatti non crescono da soli e serve costanza per portarli a termine e per farlo così bene. A cosa serve un libro sul galateo nel XXI secolo? Intanto a ricordarci come non siano affatto scomparsi, continuano a circolare fra noi sotto sembianze diverse, chi ha detto manuali self-help? esatto. Inoltre, sebbene in apparenza il volume di Soave possa sembrare una tesi compilativa, è a tutti gli effetti un galateo aggiornato agli anni dieci che abbiamo appena traguardato. Parla alla donna, e all’uomo, del suo tempo molto di più di quanto possa apparire evidente, accorrete pubblico, non spaventatevi.

Collezionista di galatei, “un centinaio, quasi tutti italiani [compresi tra il 1861 e il 1968, ndr]”, Irene Soave rinuncia a tenere tutto per sé un simile tesoro – perché tale è, insieme ai libri scolastici e religiosi la conduct literature è destinata a scomparire con il rammarico degli storici, non solo quelli del costume – e mette a frutto tale raccolta con una sintesi solo sua. Descrive il suo libro come “una raccolta di regole per maritarsi, tratte dalla collezione che vi ho detto” e indica alla lettrice e al lettore alcune chiavi interpretative: può essere letto come un documento, una stele di Rosetta un po’ intuitiva o un manuale. C’è da scommetterci che come documento rimarrà a lungo, per le ragioni spiegate nell’inciso sopra.

Suddiviso in cinque parti (1. Teorie e tecniche del beau mariage; 2. Caratteristiche della ragazza da marito; 3. Condotta della ragazza da marito; 4. Dove farsi trovare; 5. Il treno è partito) il “Galateo per ragazze da marito” ha come ogni buon farmaco letterario un’avvertenza: “[ricordate, leggendo queste pagine,] se fossi in grado di suggerire a chichessia le regole per maritarsi sarei già miliardaria; e noi – voi e io – già maritate”. Avrete quindi capito il tono ironico di tutto il libro, Irene Soave si è divertita a scriverlo e almeno al sottoscritto non è affatto dispiaciuto. Però, essendo un uomo, posso solo immaginare il nervoso di una donna al pensiero di quel che hanno dovuto passare le donne tra Ottocento e Novecento che Soave ci racconta con finta nonchalance.

Infatti “le regole del cosiddetto bon ton sono, cioè, un manuale di istruzioni del potere. A uso, è ovvio, di chi ne ha meno”. Bassi e potenti ai tempi del Della Casa, donne e uomini da più secoli di quanti vorremmo ricordare. Se c’è una nota lieta che pervade il Galateo per ragazze da marito è che “donne e uomini di una volta”, le figure mitiche rimpiante dalla maggioranza di chi si riconosce conservatore, in realtà non sono mai esistiti. Ogni epoca ha invece di fatto (e spesso de iure) tentato di normare i rapporti tra i sessi secondo l’equilibrio di potere determinato dal censo e dal denaro allora vigente. È evidente come in questa bilancia il piatto dell’uomo (o della società immaginata dall’uomo) stia iniziando ad alleggerirsi.

Il galateo stilato da Soave si chiude con un’ultima parte dedicata alle zitelle con tanto di prontuario “per evitare la macchietta e rendersi inattaccabili” sempre ripreso e distillato dalla sua collezione: non diventate pettegole; non fatevi chiamare signorina; siate fataliste e benevole; non seguite le orme di Erode; non seguite le orme di Noè; never complain, never explain; trovatevi da fare; fingete di avere da fare, cioè ‘facite ammuina’; non siate crudeli con i vostri cari. Varrebbe comprare il libro solo per queste nove voci, non trovate? “Oggi il finale delle storie mainstream per signorine contempla [infatti] che ci si metta il cuore in pace”. Il vero finale del galateo di Irene Soave però ve lo lascio scoprire da voi.

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Niklas Natt och Dag, 1793, non ci saranno che tenebre adesso?

1793 Niklas Natt och Dag

1793 di Niklas Natt och Dag

1793 di Niklas Natt och Dag
Traduzione di Gabriella Diverio e Alessandra Scali
Einaudi editore 2019, 490 pagine; 20 €; ebook 9,99 €

– Venite anche voi dal commissariato di polizia?
– In un certo senso. Diciamo che sono un collaboratore occasionale. Mi manda il commissario. E voi, Jean Michael? Che cosa vi porta al cimitero di Maria Magdalena a quest’ora di notte?

L’argomento della mia tesi di laurea ha riguardato l’amministrazione della giustizia nella Lombardia settecentesca. Capirete che quando Einaudi mi ha inviato in omaggio una copia di “1793” non potevo essere più contento. Sono tornato con la memoria agli ultimi giorni del Ducato di Milano, che già dal 1796 era diventato la Repubblica Transpadana. Anche la Stoccolma tratteggiata dalla penna di Niklas Natt och Dag vive nell’ombra della Rivoluzione francese, il trono è vacante in seguito all’assassinio del re Gustavo III e nelle locande riecheggia spesso la Marsigliese (la testa di Luigi XVI è del resto rotolata nella polvere il 21 gennaio 1793, è forse giunta l’ora che il popolo vessato dalla nobiltà prenda il potere anche in Svezia?).

“1793” ha il passo sicuro dei romanzi storici basati su solide ricerche, l’autore nella postfazione vi dirà anche quali licenze s’è concesso (ve l’anticipo, molto poche) per ricreare il mondo in cui si muovono i suoi personaggi. Il Settecento è stato per gran parte un secolo terribile per essere al mondo. Imperversavano ancora pestilenze, anche a causa di errate convinzioni mediche, la gente comune fungeva letteralmente da carne da cannone durante conflitti tanto brutali quanto insensati, una città come Stoccolma era quasi perita in seguito a incendi disastrosi che per primi divoravano le abitazioni di legno delle classi meno abbienti, il lavoro manuale ti consumava tanto da renderti già vecchio a quarant’anni, le condizioni igieniche erano precarie. Non vi troverete a vostro agio.

Non fraintendetemi, “1793” è sì un romanzo storico ma è principalmente giocato sul fascino che eserciterà su di voi la collaborazione tra i due protagonisti principali. Natt och Dag non si sottrae a utilizzare il duo archetipico del romanzo giallo (investigatore e aiutante, ça va sans dire) riuscendo però a rendere il suo Sherlock Holmes, il procuratore Cecil Winge, geniale ma credibile descrivendolo a un passo della morte per via della tisi e il suo Watson (ancor meglio, il suo Jet Black), la guardia controvoglia Mickel Cardell, inarrestabile ma sensibile sia ai vizi, troppo alcol, sia alle ingiustizie, che in una Stoccolma allo sbando sono spesso proprio gli sbirri a perpetrare ai danni della povera gente. Ci sono, ovvio, anche altri personaggi memorabili ma… niente spoiler.

Bella l’idea di suddividere il romanzo in quattro parti, a mio parere uno degli accorgimenti che rende memorabile “1793”, così come il sapiente uso delle lettere, che gli conferiscono quel non so che da romanzo epistolare che tanta fortuna ebbe proprio nel Settecento. Una curiosità, in inglese la storia di Natt och Dag è conosciuta come “The Wolf and the Watchman” ma mi sembra fuori fuoco. Come vi ho accennato sopra, l’anno e lo sfondo cittadino delle vicende sono tanto importanti quanto gli attori che si muovono sul palcoscenico. Indovinato l’accorgimento di dare al lettore in aletta una mappa della Stoccolma dell’epoca, forse avrei evidenziato meglio il nome dei singoli quartieri perché i personaggi si spostano di sovente da un posto all’altro della capitale.

Avrete capito che “1793” mi ha appassionato. Mi sono ritrovato a maledire l’autore per l’indifferenza che sembra nutrire per i suoi personaggi e scoprirmi ad avanzare velocemente nella lettura per capire che cosa ne avrebbe fatto. Non mi capitava da tempo. Natt och Dag racconta un mondo a noi relativamente vicino – “Le lamentele che corrono di bocca in bocca sono sempre le stesse: l’economia che va a rotoli, l’incompetenza dei governanti, la necessità urgente di cambiare le cose” – in cui però erano all’ordine del giorno orrori (le esecuzioni pubbliche, ad esempio) e discriminazioni che in larga parte ci siamo lasciati alle spalle. Se vi piace il genere sono sicuro che anche voi vi affezionerete a Cecil Winge e Mickel Cardell.

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Olga Tokarczuk, I vagabondi, quel che mi fa male lo cancello dalle mie mappe

I vagabondi di Olga Tokarczuk

I vagabondi di Olga Tokarczuk
Traduzione di Barbara Delfino
Bompiani 2018, 20 €; ebook 9,99 €

«Non farei meglio a […] esprimermi non [con] racconti ma con una lezione? I racconti hanno una specie di inerzia propria, che non si può controllare fino in fondo. Richiedono gente come me, insicura, indecisa, facile da sviare. Ingenua».

Non mi convince il titolo scelto da Bompiani, non me ne vorranno, e lo dico subito. Non rende giustizia al romanzo di Olga Tokarczuk. “I vagabondi”. Gli spagnoli l’hanno chiamato “Los errantes”, i francesi “Les péregrines”. Peggio di noi i tedeschi “Unrast” (Irrequietezza) e gli anglosassoni “Flights”. Certo il titolo originale “Bieguni” è ostico. Un titolo intraducibile secondo il filologo di Barcellona Magí Camps. Tale termine indica gli aderenti a una setta russa settecentesca detta Chiesa errante. In quanto eretici, ma anche per via del loro credo religioso che li spronava a non stanziarsi in nessun luogo e a rifuggire il contatto con gli altri uomini, erano perseguitati dalla Chiesa ortodossa e dallo zar, destinati a non trovare mai pace. Dopo essere venuto a capo di questo romanzo frammentario in poco meno di due mesi per me “Bieguni” rimarrà “I pellegrini”. È del resto una parola che ritorna spesso nelle sue quasi quattrocento pagine.

Antonio D’Orrico sull’inserto culturale del Corriere (“la Lettura” n. 461) non ha dato la sufficienza a questo romanzo scambiandolo tra l’altro per un libro di viaggi, che non è. Le attribuisce non il Nobel per la Letteratura – che le è stato assegnato per il 2018 – ma il Guinness per la grafomania. Poteva tagliare “I vagabondi” la scrittrice? Poteva renderlo più appetibile per le donne e gli uomini di oggi? Quei globetrotter per i quali ha espressamente scritto “Beguni”? Forse sì, una cinquantina di pagine la/il sua/o editor avrebbe potuto tranquillamente tagliarle. Eppure, alla fine, il libro ha la sua forma così com’è, intreccio di racconti su e giù per il tempo; si passa dall’oggi all’Ottocento di Chopin al Seicento di Spinoza. Intanto saliamo su navi da crociera e traghetti, percorriamo insieme a Tokarczuk chilometri negli aeroporti, ritroviamo messaggi nei sacchetti contro la chinetosi.

Tra i fili rossi che uniscono tutte le storie de “I vagabondi” sono senza dubbio presenti le tecniche di conservazione dei corpi e la morte, i lettori sensibili a tali argomenti sono avvisati. In qualche modo misterioso, persino quando, una volta deceduti, veniamo imbalsamati (a volte contro la nostra volontà), possiamo dire di esserci ancora. E come surrogato di noi possono sopravviverci le nostre parole, l’esortazione di Tokarczuk è chiara: “Non vergognativi, tirate fuori i vostri diari e scrivete. D’altronde siamo in tanti a scrivere […]. Ci descriveremo semplicemente a vicenda, è il mezzo di comunicazione più sicuro; ci trasformeremo reciprocamente in lettere e iniziali e ci renderemo eterni sulle pagine di carta, ci plastineremo immergendoci nella formalina di pagine e frasi”.

Riassumendo cosa troverete in “I vagabondi”: gente morta ma meravigliosamente conservata, spesso secondo il principio della Wunderkammer, la signora con la falce, ah già, non mancano naturalmente riflessioni e racconti sul decadimento, sulla malattia e sulla pazzia. Se è vero che possiamo nel giro di un giorno tornare in Polonia dall’Australia via aereo o costeggiare i Balcani e la Grecia senza timori di naufragi su enormi imbarcazioni di metallo – quanti progressi ha collezionato l’uomo prendendo in considerazione solo gli ultimi centocinquant’anni anni – quel che non è cambiato è la nostra fragilità, la distanza abissale tra ciò che crediamo di sapere, a volte semplicemente in una relazione di coppia, come in uno dei racconti più angoscianti del libro, e quel che davvero sappiamo.

Ultimo appunto necessario per una scrittrice che in patria è minacciata di morte ed è tutto tranne che amata dal governo nazionalista in carica: è bello leggere della sua Polonia. Sia di quella oppressa dal regime comunista nel secondo dopoguerra sia di quella contemporanea dove le famiglie possono andare in vacanza in Croazia senza problemi, sia di quella ottocentesca sotto il giogo zarista e prussiano. In “I vagabondi” passa il messaggio che i polacchi siano stati ingiustamente vessati dalla Storia e ora si stanno godendo, esattamente come la Polonia uscita dalla Prima guerra mondiale, uno dei periodi di pace e di libertà più lunghi di sempre. Anche esprimendo idee diverse da quelle della destra al potere a Varsavia Tokarczuk dimostra, se ce ne fosse bisogno, a modo suo, da nomade, di amare il suo Paese.

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Tana French, Il collegio, se mai sono state davvero giovani ne hanno perso il ricordo

Il collegio di Tana French

Il collegio di Tana French
Traduzione di Alfredo Colitto, Einaudi editore, giugno 2019, (cartaceo 21 €, 664 pagine; ebook 9,99 €; letto grazie a una copia gratuita inviata dall’editore)

Tutto sanno che moglie e bambini sono un laccio. Ma la gente non capisce che anche gli amici lo sono. Avere degli amici significa che ti sei assestato. Il punto in cui siete arrivati insieme è dove resterai: non andrai oltre. È la fermata a cui sei sceso.

È soltanto colpa mia se sono diventato un lettore di Tana French solo ora, nel 2019. Non sarò mai abbastanza riconoscente ai tipi di Einaudi per la copia omaggio de Il collegio speditami qualche settimana fa. Tana French è infatti sugli scaffali delle nostre librerie da tempo, per la precisione dal 2007, quando uscì per Mondadori “Nel bosco”, cui sono seguiti “La somiglianza” (2009), “I luoghi infedeli” (2011) e “L’intruso” (2018), inutile aggiungere che mi affretterò a recuperarli tutti. E per di più, felicità, pare ce ne siano almeno due (“Broken Harbour”, 2016; “The Wych Elm”, 2018 ) in attesa di traduzione. Certo corro il rischio, essendo partito da uno dei suoi ultimi romanzi, di aver letto uno dei suoi romanzi migliori, perché “Il collegio” sono seicento pagine di puro godimento, almeno lo sono state per il sottoscritto, ben contento di leggere un bel giallo irlandese.

A parer mio, bene ha fatto Einaudi a cambiargli il titolo. “Il collegio” poteva uscire da noi come “Il luogo segreto”, aderente alla titolazione originale (“The Secret Place”) ma proprio per questo forse troppo trasparente al fine della risoluzione della trama. O quantomeno, troppo sbilanciato nel presentare l’ambiente in cui si svolge l’investigazione del detective Antoinette Conway e del responsabile dei Casi Freddi (cold case) Stephen Moran. I due poliziotti, alla loro prima collaborazione, tornano sulla scena di un crimine avvenuto un anno prima: chi ha ucciso Chris Harper, studente del St. Colm nel giardino del St. Kilda, il collegio femminile lì vicino? Chi ha lasciato un biglietto sulla bacheca della scuola che sembra gettare nuova luce su un omicidio in apparenza senza alcun movente?

Il montaggio utilizzato da French per scrivere “Il collegio” alterna l’investigazione di Conway e Moran al racconto della vita delle studentesse del St. Kilda nell’anno appena trascorso. Vale a dire, più ci addentriamo nel romanzo più ci avviciniamo al momento esatto dell’omicidio di Harper, meglio conosciamo le dinamiche interne del collegio, più a fondo entriamo nella testa di Moran, che vuole utilizzare questa investigazione per fare il salto dai Casi Freddi alla Omicidi. I lettori italiani fedeli di French già sanno che verranno a capo del mistero visto che Conway e Moran faranno coppia nel romanzo successivo a “Il collegio”, “L’intruso”. French ama i personaggi ricorrenti visto che in questa storia ritorna Frank Mackey, protagonista de “I luoghi infedeli”, addirittura la figlia di Mackey, Holly, è una delle protagoniste della vicenda.

Da una parte il mondo degli adolescenti – “E tutti ricorderemo quella festa per il resto delle nostre vite. Quando avremo quarant’anni, un lavoro, dei figli, e la cosa più eccitante che faremo sarà il ‘golf’, quando vorremo ricordarci di com’era la vita da giovani sarà a quel party che penseremo” –dall’altra quello degli adulti, in particolare quelli a contatto diretto con le brutture del mondo – “In giardino c’era un ragazzo con la testa spaccata da una zappa e lei mi parlava di un mondo di frappuccini e lezioni di violoncello, dove nessuno ha mai un pensiero cattivo. Capisci cosa intendo per ingenuo?” –, in mezzo, o a lato, suggestioni sovrannaturali che forse solo questo sono, appunto, suggestioni, una certa radura nel giardino del collegio, il respiro trattenuto sotto la luce della luna di epoche che seguivano ragionamenti diversi dai nostri.

Non ho idea se gli altri libri di French raccontino così bene l’adolescenza, questo lo fa – e forse proprio per questo è piaciuto così tanto a Stephen King, come ci ricordano in copertina – insieme naturalmente al disseminare indizi per farci arrivare a individuare il colpevole, come in un vero giallo che si rispetti. Leggetelo come il semplice racconto di una investigazione appena fuori Dublino o come il riflesso della vostra migliore età perduta, decidete voi. Se non vi piacerà sarà perché volete romanzi gialli più spediti che non si perdano in tanti ragionamenti. Se vi piacerà, avrete trovato un’autrice molto attenta a ciò che pensano i suoi personaggi di cui potete fidarvi.

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Sally Rooney, Persone normali, ma lei è più generosa

Persone-normali-Rooney

Persone normali di Sally Rooney

Persone normali di Sally Rooney
Traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi editore, maggio 2019, (cartaceo 19,50 €, 248 pagine; ebook 9,99 €; letto grazie a una copia gratuita inviata dall’editore)

Mi dispiace molto per quello che ti ho fatto. Ha sempre pensato che se l’avesse rivista le avrebbe detto questo. Ma in qualche modo lei non sembra consentirglielo, o forse è vigliacco lui, o entrambe le cose.

Non essendo un critico ma solo un lettore di passaggio, azzardo un’ipotesi ardita, Persone normali di Sally Rooney è un libro generazionale. Un romanzo di formazione dove si riconoscerà chi aveva vent’anni all’inizio degli anni dieci (Rooney è nata nel 1991); primo dato interessante, il volume è uscito l’anno scorso quindi non ci troviamo di fronte a un fenomeno alla Enrico Brizzi per intenderci, Rooney non viene scoperta dal mondo letterario a vent’anni e “Persone normali” è già il suo secondo libro, non il suo romanzo d’esordio (“Parlarne tra amici”, 2017). Ma perché tiro in ballo il buon vecchio Enrico con sprezzo del ridicolo? Perché alcuni fondamentali punti di contatto tra “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” e “Persone normali” a mio avviso ci sono, ronzavano nella mia testa durante la lettura ma sono riuscito a vederli solo dopo aver voltato l’ultima pagina. Ed è anche interessante analizzare al volo come due libri generazionali possano distinguersi pur avendo a mio avviso molte somiglianze.

Dicevamo, 2011, Irlanda, Sligo. Immaginate un posto di provincia qualsiasi in Italia a due ore dal capoluogo e a tre dalla città dove “bisogna stare”: Milano, Roma, decidete voi. I protagonisti. Connell e Marianne. Entrambi sono all’ultimo anno delle superiori irlandesi e si amano, non solo platonicamente (prima differenza). Lui è figlio di una ragazza madre, lei è benestante ma orfana di padre, con una madre e un fratello sadici che a ogni incontro cercano di distruggerla psicologicamente. In particolare il fratello di Marianne, Alan, all’inizio credevo fosse una proiezione della sua mente tanto era sgradevole. Connell e Marianne stanno insieme ma il ragazzo a scuola è popolare e tiene la relazione nascosta perché la ragazza è considerata dai più una spostata. Rispetto a venti/venticinque anni fa siamo in piena età dell’ammirazione (seconda differenza). A Connell quel che la gente possa pensare di lui interessa a Marianne no.

Quanto durava di solito una relazione tira e molla una generazione fa? Lo spazio di un’estate. Quelle di chi aveva vent’anni dieci anni fa anche anni (terza differenza). Tipo quattro per Connell e Marianne. Non so se colpirà anche voi ma la scansione temporale degli eventi scandita dalla divisione in capitoli scelta da Rooney mi ha fatto rabbrividire: tre settimane dopo, un mese dopo, sei settimane dopo… Il tempo del non prendere decisioni, del non sapere se si è in un rapporto o no e perché (come la madre di Connell sottolinea a un certo punto: “Non riesco proprio a capirle, le vostre relazioni. Ai miei tempi stavi con qualcuno o non ci stavi”) per la generazione di Rooney pare dilatarsi all’infinito, la giovinezza sembra non finire mai e anche andare all’università non rappresenta più un rito di passaggio ma solo un prolungamento delle superiori.

Rooney ci fa partecipe sia dei pensieri di Connell sia di quelli di Marianne (quarta differenza) ma ci accorgiamo presto come il non detto tra lui e lei sia il vero protagonista di “Persone normali”.  Fatti l’uno per l’altra, intelligenti, compatibili al cento per cento sessualmente e spiritualmente, non è una minaccia esterna (o un evento, ad esempio un anno all’estero, quinta differenza) a impedire loro di essere coppia, sono loro stessi che sabotano il rapporto. E intorno a loro del resto, a parziale giustificazione non richiesta, non c’è nulla che giustifichi una ricerca di senso (tanto che una morte inaspettata quasi devasta uno dei due): motivazioni come l’impegno politico o sociale non entrano che a romanzo quasi finito vedendoli non a caso come semplici spettatori.

Cosa cercano i giovani adulti di oggi? Non l’amore sembra suggerire Rooney ma il raggiungimento di una qualche forma di consapevolezza del proprio ruolo nel mondo. Se ci mettiamo che la società attuale non dà più punti di riferimento a tale riguardo, o se esistono sono da loro percepiti come obsoleti, è un’impresa ancora più complicata di quella di trovare l’amore vero. Ho letto in un’intervista che Rooney non si sente il portavoce di nessuno. Le credo ma ciò non toglie che leggere “Persone normali” sia un mezzo efficace per empatizzare con una generazione di trentenni all’apparenza indecifrabile che ben presto sarà chiamata a diventare grande, sempre che non lascino questa responsabilità a chi oggi di anni ne ha venti.

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Rachel Kushner, Mars Room, il mondo va avanti da tanto, tantissimo tempo

Mars Room di Rachel Kushner

Mars Room di Rachel Kushner
Traduzione di Giovanna Granato, Einaudi editore, aprile 2019, (cartaceo 20 €, 344 pagine; ebook 9,99 €; letto grazie a una copia gratuita inviata dall’editore)

Partì un allarme. Io nel frattempo parlavo con la ragazza. Le ricordavo di respirare. Lei continuava a ripetere “no”, come se non volesse avere il bambino, come se potesse impedire al futuro di fondersi con il presente.

Mi ritengo fortunato ad aver letto Mars Room di Rachel Kushner,  soprattutto d’ora in poi alla domanda “Mi consigli un romanzo fatto bene?” avrò la risposta pronta. Già autrice di due romanzi storici, pubblicati in Italia da Ponte alle Grazie, Kushner ci riporta nella sua nativa California all’inizio degli anni Duemila  quando l’omicida Romy Leslie Hall viene tradotta in carcere per scontare i suoi due ergastoli in un carcere della Central Valley. Un assaggio di tutto quel che l’aspetta in galera avviene proprio sul cellulare: la riduzione a numero, la vicinanza al disagio mentale, la correzione dei devianti, le regole non scritte dei luoghi di reclusione, la punizione delle minoranze, perfino la morte.

A riprova che il mito degli Stati Uniti d’America come terra promessa delle opportunità sia, appunto, solo un mito, Romy Leslie Hall ci racconta la sua giovinezza mentre lentamente si assuefa alla vita carceraria. Come poteva, data la sua storia famigliare e il suo status sociale, sottrarsi alla Notte delle Catene? Puntuale come un carro bestiame (o un camion di tacchini stipati in minuscole gabbie diretti al macello), una volta a settimana, dalla casa circondariale di Los Angeles sessanta persone vengono portate in prigione. E chi credete che ci finisca dietro alle sbarre negli States? Chi non può permettersi un buon avvocato, chi non ha la pelle bianca o chi pur avendola è “spazzatura bianca” o, alla Manson, dà fuori di matto.

L’innocenza è propria solo dei bambini, Romy Leslie Hall ha un figlio che le cura la madre e di cui parla spesso. Rachel Kushner dona alla sua protagonista il tipico bambino aperto al mondo, quello che ti lascia a bocca aperta per le uscite che fa sulla realtà che lo circonda, quello che ti aspetti diventerà uno scienziato da grande, quello che non smarrirà la strada verso un futuro di fratellanza e di pace. Eppure se la madre l’innocenza l’ha persa sulle soglie dell’adolescenza come possiamo credere che il destino di Jackson possa rivelarsi diverso? Dobbiamo credere che ce la farà, in particolare dobbiamo credere che ce la farà da solo, senza la madre, che è ormai parte di un universo diverso, quello carcerario americano, che di bambini, perfino quando ne nascono fra le sue mura, non ne vuole sapere.

Non so quanto ci sia di verosimile nella ricostruzione dell’ambiente carcerario fatta da Kushner, quel che è certo è che ti passa l’angoscia delle detenute una riga per volta, sia di quelle speciali, quelle rinchiuse nel braccio della morte – chiamato in un altro modo per non turbare le guardie, suggerisce Romy Leslie Hall –, sia di quelle ordinarie, quelle che hanno solo un ergastolo oppure dalla galera entrano ed escono perché la concepiscono come la loro vera casa. Intelligente l’alternanza dei punti di vista, la vicenda viene raccontata tra gli altri anche da Gordon Hauser incaricato di insegnare l’inglese alle detenute. Hauser vive sulle montagne vicino al carcere che sono tutt’altro che un luogo incontaminato come anche alcuni inserti di finti diari di Theodore Kaczynski ci ricordano.

Ambizioso, intelligente e “sentito”, tre aggettivi che posso associare a Mars Room, nome non solo del romanzo ma anche del locale in cui Romy Leslie Hall si esibisce per guadagnarsi da vivere, un lavoro che Kushner non giudica come non giudica nessuno dei suoi personaggi. “Per voi sarebbe stato tutto diverso” fa affermare alla sua protagonista, ma è davvero così? Quanto di quello che ha inciso sulla nostra vita dipende dall’ambiente che ci ha formato rispetto a quello che abbiamo deciso di essere di nostra propria volontà? È una fortuna o una sciagura che Romy Leslie Hall possegga le capacità di riflettere su quel che le è accaduto?

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Joe R. Lansdale, Hap and Leonard – Sangue e limonata, ma la quercia e il lago non ci sono più

Hap & Leonard – Sangue e limonata

Hap & Leonard – Sangue e limonata di Joe R. Lansdale
Traduzione di Luca Briasco, Einaudi editore, marzo 2019, (cartaceo 17 €, 212 pagine; ebook 9,99 €)

Amo molto le storie che trovate qui raccolte. Non sono tutte eroiche o avventurose, ma colmano un’ampia serie di carenze e di punti oscuri e forniscono informazioni che non troverete mai negli altri miei libri. Soprattutto su Hap.

Non ho letto nessuno dei romanzi di Joe R. Lansdale con protagonisti Hap & Leonard e probabilmente ora mi trovo in compagnia di chi ha scoperto questa coppia di investigatori solo con la serie TV. Ho quindi la fortuna di poter leggere d’ora in avanti in ordine cronologico tutto il ciclo a loro dedicato – partendo da “Una stagione selvaggia” fino ad arrivare a “Il sorriso di Jackrabbit” (uscito nel 2018) essendo partito dai quattordici racconti di Hap & Leonard – Sangue e limonata, che raccontano l’infanzia e l’adolescenza dei due detective. Inviandomi questa copia omaggio Einaudi si è in pratica assicurata da parte mia l’acquisto di almeno una decina di libri! Ah, Joe R. Lansdale nella postfazione ci tiene a precisare che “Sangue e limonata” è un romanzo a mosaico e anche così si può considerare.

Lansdale ci riporta agli anni Cinquanta e Sessanta quando nel Texas orientale i neri stavano con i neri e i bianchi con i bianchi, in virtù della segregazione razziale e della mentalità stessa dei bianchi, che tutto potevano accettare tranne che un nero avesse i loro stessi diritti. Come fai a spiegare oggi a una ragazza o a un ragazzo che se hai la pelle di un colore diverso dal bianco non puoi permetterti di entrare in un negozio dalla porta principale? Che se ti metti dalla parte dei neri sei un traditore della “razza bianca” e devi essere punito o perfino eliminato? Oltre a suggerirgli un buon testo di storia, gli consigli di leggere “Sangue e limonata” che nel racconto omonimo e in “Una pausa per il caffè” lo spiegano molto bene.

Un altro tema trasversale a tutti i racconti di questa raccolta è quello della giustizia, evidente fin dal racconto di apertura, “La parabola del bastone”, che mette in dubbio le logiche del sistema educativo americano attuale che sanziona sia il bullo sia la vittima del bullo, in caso questa abbia cercato di difendersi con la forza dalle angherie del primo. In “Il bambino che diventò invisibile” si torna sull’argomento della crudeltà tra pari in ambito scolastico – e sui meccanismi che portano all’esclusione del più debole – portandolo alle estreme conseguenze, fino a che punto ci si può ribellare a una palese ingiustizia?

Il lettore italiano, almeno il sottoscritto, non può non notare un altro elemento evidente di “Hap & Leonard – Sangue e limonata”: la pervasività dell’utilizzo delle armi, e di converso della liceità dell’atto violento. Si va dal coltello fino al fucile ma in quasi tutti i racconti un’arma è presente. Necessaria perché funzionale alla caccia, del resto. Perché si cacciava o pescava in Texas negli anni Cinquanta/Sessanta? Non per sport ma per arricchire una dieta altrimenti povera di proteine. Ci viene ben spiegato da Lansdale che nel racconto “In riva al fiume” fa finire un’amicizia del suo giovane protagonista Hap con un altro ragazzino, Davis, proprio per questo motivo, se la caccia o la pesca diventa pretesto per sfogare le proprie frustrazioni allora perde senso.

Le pagine della raccolta di Lansdale non tratteggiano soltanto la società texana di quarant’anni fa e il passato Hap – il suo rapporto con la madre e il padre, l’inizio dell’amiciza con Leonard –, descrivono a chiare lettere come l’ambiente naturale di questa parte degli Stati Uniti abbia battuto in ritirata di fronte all’avanzata inesorabile dell’uomo. Se prima bastava uscire di casa per entrare in un bosco, adesso il laghetto della vecchia cava è stato riempito e la quercia abbattuta per fare spazio a un’ordinata infilata di alberi da legna e così via. Nostalgica ma non malinconica, “Hap & Leonard – Sangue e limonata” è l’introduzione ideale per fare i primi passi nel Texas di Lansdale.

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