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Marta Barone, Città sommersa, e mio padre era sempre due o tre passi avanti a me

Città sommersa di Marta Barone

Città sommersa di Marta Barone
Bompiani 2020, 18 €; ebook 9,99 €

«Immagini di mio padre […]. L’oro e il rosso profondo della Madonna della Misericordia tardogotica che allargava il mantello in un museo di Arezzo, e lui fermo lì davanti, che si girava a guardarmi con un sorriso pieno di incanto […]».

Non ne volevo sapere di leggere un’altra ricostruzione degli anni Settanta. Eppure ho comprato “Città sommersa” di Marta Barone. Incoerenza? Può darsi. Essere coerenti, si capisce leggendo queste trecento pagine, è un peso che ti può schiantare, se non hai dentro di te un’ideale che va oltre i partiti, come L.B., il padre della voce narrante o, viceversa, se non sei pronto a riciclarti, a passare magari a quella Chiesa che i movimenti d’estrema sinistra di cinquant’anni fa ricordano tanto. Liberi dai dogmi per essere in fondo assoggettati ad altri dogmi ancora più severi: “Credevano in quello che facevano e la maggior parte di loro non ha mai fatto del male a nessuno, se non a sé stessi. Sono stati divorati dalla Storia” (dice lo scrittore che crede di non averne fatto parte).

Fosse solo rievocazione storica Marta Barone avrebbe già fatto un gran lavoro. Traspare la fatica della ricerca a osservare in controluce “Città sommersa”: la Torino degli anni Settanta riemerge dal fondo del lago del tempo con colpi di pennello precisi nelle tinte del bianco e del nero e, per gli episodi più recenti, delle foto dai colori alterati degli anni Ottanta. Il romanzo, sempre che si possa fare affidamento sulla narratrice, è una profezia che si auto avvera. L.B. che dice alla figlia che un giorno scriverà un libro su di lui. Perché se è vero che Leonardo Barone ha avuto una decent life, come sostiene, forse a ragione, un insopportabile che l’aveva conosciuto bene, è anche vero che la sua esistenza è stata larger than life.

E se altrove l’espediente per raccontare una storia è un manoscritto ritrovato, tutto parte in “Città sommersa” da una memoria difensiva di L.B. che si scopre essere stato soggetto a un processo. “Per quanto non fossi bene in grado di definire le sue virtù, di certo non sembrava portato al crimine. Era finita lì, in un improbabile impeto di compassione infantile per lui, che sapevo esser debole, e quindi, indiscutibilmente, vittima”. E dunque, anche noi lettori, come Marta Barone, ci arrovelleremo per tutto il libro su un interrogativo: L.B. ha o non ha aiutato consapevolmente uno della fazione armata dei movimenti di estrema sinistra nella sua qualità di medico? Quanto questo sia o meno importante si capirà durante la lettura.

Mentre, senza un disegno di riferimento, Marta Barone tenta di ricostruire il puzzle da mille pezzi raffigurante l’esistenza del padre, intanto, non si può che solidarizzare con lei.Del resto non saprò mai niente. Non saprò mai quando scoprì i libri, se aveva un posto segreto dove rifugiarsi a fantasticare e a leggere da solo, […] che cosa infine lo rese diverso da tutti gli altri […]. Forse […] era così già alla nascita”. E se forse un appunto le si può muovere, è che conoscere così a fondo i propri genitori equivarrebbe a eleggerli come propri amici [quanto è vero che si dovrebbe scriverne di più di romanzi sull’amicizia, Marta, quand’è che ne scrivi uno? ndr] quando per loro natura, almeno per chi scrive, sono altro.

Comprendere i propri genitori. E chi ci è mai riuscito? Vi ci si può provare, specie quando il rapporto con loro è stato tormentato. Quando in extremis si tenta di recuperare quel che durante la nostra esistenza crediamo di avere sprecato o perduto. “Sapevo che anche lei, come altri, pensava che io non avessi voluto abbastanza bene a mio padre. Diciamo che non gli avessi voluto bene nel modo giusto […]. E forse non mi considerava titolata […] ad andare a chiedere un racconto su di lui”. “Città sommersa” è un omaggio che pochi figli possono dire di aver tributato all’ombra di un padre che l’acqua del Lete ha già bevuto.

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Andrea Coccia, Contro l’automobile, le auto sono ovunque

Contro l’automobile di Andrea Coccia

Contro l’automobile: è più facile immaginare la fine del mondo che un mondo senza auomobili di Andrea Coccia
Eris Edizioni 2019, 6 €; (non c’è l’edizione ebook)

«L’automobile è sempre. Lo è sia se l’unità di misura è una tua giornata, sia se è la tua intera vita. Le quattro ruote ti inseguono dalla culla alla tomba».

Ottant’anni fa, all’inizio degli anni quaranta del XX secolo, mio nonno materno si consultò con la sua famiglia per un acquisto importante. Comprare oppure no per recarsi al lavoro una bicicletta, vale a dire per fare diciotto chilometri di strade bianche ogni giorno tra andata e ritorno? Non solo costava la bicicletta in sé (diverse centinaia di lire, moltissimo per dei contadini), bisognava pagare anche una tassa di circolazione di dieci lire e decidere se acquistarla o meno con fanale e dinamo, altra spesa da mettere in conto visto che d’inverno nel Bellunese il sole scompare presto dietro le montagne. Alla fine decisero che sì, l’acquisto era da fare.

All’epoca il mondo non era ancora stato conquistato dalle automobili, appannaggio del ceto benestante, unico ad avere diritto alla velocità, Andrea Coccia descrive bene nel suo pamphlet Contro l’automobile come  si sia arrivati nel XXI secolo a nuclei familiari che in media hanno non una ma due automobili. Non solo è diventato un acquisto indispensabile (ben diverso da quello di mio nonno!), soprattutto per chi abita fuori dalle grandi città, ma invece di tanti Nuvolari gli esseri umani sono stati ridotti alla caricatura del salariato in coda in tangenziale, perfino in un film Disney come “Gli incredibili”, non so se ve lo ricordate, il superuomo frustrato era compresso nella sua microscopica utilitaria, imbottigliato nel traffico.

Le autoscrive Cocciaoccupano il nostro immaginario, il nostro spazio e il nostro tempo. Sono “l’elemento della realtà più ricorrente della nostra epoca”, ed è difficile dargli torto visto che ci accompagano da bambini, con le macchinine giocattolo, fino alla tomba, con i carri funebri, che non sono altro che auto di lusso. Da scommessa di imprenditori come Renault e Ford l’automobile si è imposta come mezzo privilegiato di trasporto in meno di un secolo soppiantando il treno, troppo facilmente controllabile dai suoi stessi lavoratori suggerisce Coccia per essere davvero affidabile per governi totalitari (come l’Italia fascista prima e la Germania nazista poi) e democratici (come gli Stati Uniti d’America).

La tesi di Coccia è trasparente e palese: “l’automobile è il cuore pulsante del capitalismo“. Non solo, siamo stati convinti da campagne pubblicitarie martellanti e pervasive che “l’auto sia l’ultimo rifugio del nostro diritto alla libertà e alla felicità personale”. Nemmeno l’automazione dell’auto promessa da aziende come la Tesla di Musk potrà dirsi una conquista, o un cambio di passo, dato che si tratterà di aver pagato a caro prezzo “la libertà […] di muoversi su immensi treni disarticolati”. L’automobile ha vinto e il trasporto pubblico ha perso ma “la dipendenza dalle automobili è così reale e totale da averci portato a pensare che non ci siano alternative credibili?”

Coccia non è affatto un luddista, non propone di tornare al cavallo e al carro ma di sposare buone pratiche tecnologiche, sia meccaniche sia energetiche, insieme a stili di vita che non portino acqua all’ipertrofico mulino dell’automotive. “Non si smette di guidare da un giorno all’altro, ma bisogna cominciare ad abituarsi all’idea di doverlo fare al più presto” per il bene della società e del pianeta. Proprio dalle città potrebbe partire la riscossa contro l’automobile preferendo all’auto mezzi più leggeri come la bicicletta e i mezzi pubblici. Per disintossicare il mondo dalle automobili dovremo riappropriarci del nostro tempo e cambiare anche il mondo del lavoro, chissà che non sia venuto davvero il momento di provarci.

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Marco Presta, Fate come se non ci fossi, per sparire bisogna esserci

Fate come se non ci fossi di Marco Presta

Fate come se non ci fossi di Marco Presta
Einaudi editore, novembre 2019, (ebook 8,99 €; cartaceo 16 €, 180 pagine)

«Non ho mai conosciuto una persona intelligente che affermasse spudoratamente di esserlo. Se c’è una cosa che l’intelligenza genera in chi la possiede, è il dubbio di essere un cretino. Un sospetto che va coltivato per tutta la vita, con perizia e dedizione».

Io voglio bene a Marco Presta. Anzi, a Marco Presta e Antonello Dose, Presta e Dose o Dose e Presta (raro esempio di duo artistico palindromo) del resto mi tengono compagnia da un quarto di secolo, la prima puntata della loro trasmissione radiofonica “Il ruggito del coniglio” risale al 1995. Presta dalla fine degli anni duemila è presente anche in libreria, la sua prima raccolta di racconti umoristici uscì per Aliberti – “Il paradosso terrestre” (2009) – ma già due anni dopo ecco il passaggio a Einaudi: “Un calcio in bocca fa miracoli” (2011), “Il piantagrane” (2012), “L’allegria degli angoli” (2014), “Accendimi” (2017). È il turno ora di “Fate come se non ci fossi” (2019) che ho potuto leggere grazie a una copia omaggio inviatami dall’editore. E quindi com’è? Posso già dirvelo perché il libro di Presta corre veloce come una puntata del Ruggito del coniglio.

C’è molto dietro le quinte del lavoro di sceneggiatore. Invenzioni, aneddoti, ricordi risalenti all’inizio della carriera di Presta? Non è dato sapere. Sono talmente grotteschi alcuni da sperare che siano pura invenzione quando invece è probabile che siano veri. C’è per forza di cose anche molto della vita del conduttore radiofonico. Magistrale la storia dedicata all’incontro con i pubblicitari, che cristallizza anche il trend attuale di un’imprenditoria che si riscopre (o vorrebbe essere) etica, immediatamente dissacrato con la frase: “È un’azienda d’infissi d’alluminio, di che valori parliamo?”. Anche l’intervista al cantautore ormai celebre che parla male della zona di Roma da cui proviene rimane in mente perché: “Il [suo] successo, il benessere di cui può godere, il suo attuale accento milanese, tutto è cominciato con una canzone che parlava del proprio quartiere”.

C’è molta editoria, ricorrenti i racconti nel racconto proposti a un non ben precisato editore, soggetti di romanzi gialli, fantastici, horror, erotici ecc. invariabilmente respinti dalla casa editrice – “Ho l’impressione che la Casa editrice abbia delle perplessità sull’idea che ho proposto: una serie di racconti comici sulla Morte” – culminanti in un ultimo tentativo, meritevole di un insolito “per ora, [non intendiamo pubblicarlo]”: “‘Per ora’ è una locuzione che non hanno mai usato, in passato. Leggo in essa un’interessante apertura”. E forse a Presta è capitata negli ultimi tempi in mano una copia di “On Writing” di Stephen King perché, di contrasto alla lettura di un’intervista dove un non meglio precisato scrittore consiglia, alla pari di King, di utilizzarlo con parsimonia, possiamo apprezzare un’appassionata ed esilarante difesa dell’avverbio.

In modo più discreto, a mio avviso, ci sono anche la famiglia e le amicizie in questa successione di ricordi, consapevoli che il mettere ordine nella propria vita sia “una chimera” come scrive Presta. Molto toccante la descrizione di una cena di famiglia, dove per traslato si passa da una foto in cui il narratore è ancora bambino all’occasione presente, già trasposta nel passato dalla mano del figlio che si appoggia sulla sua spalla. E belli anche i frammenti dedicati al padre orgoglioso di far scoprire su YouTube alla figlia Fred Astaire o le baruffe sulla mortalità o meno dei supereroi. E se il Ruggito del coniglio è riuscito a scavallare da un millennio all’altro questo si deve anche al rapporto senza soluzione di continuità di Presta con gli amici e gli abitanti del suo quartiere, miniera di episodi buffi che nascondono sempre un po’ di malinconia.

E infine c’è tanta Roma in “Fate come se non ci fossi”. La Roma dei nostri giorni, quella caotica e invasa dai rifiuti, quella raccontata dai media che coincide però con quella in cui vivono milioni di romani, quella dove per fare due chilometri prendi la macchina perché i mezzi pubblici non passano o ci metterebbero comunque troppo. “Esco dal portone di casa che è ancora buio, come tutte le mattine, dal lunedì al venerdì. Noto subito la sua mancanza. La vecchia carcassa di frigorifero non c’è più. […] Mi dispiace […]. Mi manca”. E il passaggio di cui sopra spiega perché milioni di italiani si sono affezionati a Marco Presta, perché la sua scrittura con intelligenza e ironia aiuta a sopportare la quotidianità.

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Luca D’Andrea, Il respiro del sangue, il sorriso del colibrì

Il respiro del sangue D'Andrea

Il respiro del sangue di Luca D’Andrea

Il respiro del sangue di Luca D’Andrea
Einaudi editore, maggio 2019, (ebook 9,99 €; cartaceo 19 €, 392 pagine)

«Gli tornò in mente quanto lei stessa aveva pensato vedendolo per la prima volta, la domenica mattina in mezzo ai meleti. “Uno di quegli arnesi coperti di gomma che sembrano giocattoli ma nascondono un’anima di metallo”».

Il thriller di Luca D’Andrea Il respiro del sangue sfreccia dalla prima all’ultima pagina a 160 km/h. È un romanzo che fila a tutto gas, almeno quanto la Ford Mustang che l’autore regala al suo protagonista, Antonio “Tony” Carcano, scrittore di bestseller rosa di Sciangai, soprannome di uno dei quartieri di Bolzano, coinvolto suo malgrado in una storia riemersa dal suo passato. Quale mistero nasconde l’annegamento risalente al 1999 di Erika, una giovane ragazza? Perché Sibylle  l’intraprendente figlia ventenne dell’annegata decide di incontrare Carcano sobbarcandosi un lungo viaggio in moto fin da Kreuzwirt, ridente paesino del Sud Tirolo dove nulla accade che la riservata e potente famiglia Perkman non voglia?

Gli ingredienti per il romanzo sovrannaturale ci sono tutti: la piccola comunità isolata tra i monti tranquilla ma inquietante; persone che scompaiono e omicidi irrisolti con risvolti spettrali; antiche tradizioni e rabbiosi animali selvatici; tarocchi e testi che nessuno dovrebbe mai leggere. Il tutto ripreso in variante sudtirolese, con brevi ed efficaci descrizioni della complicata convivenza tra la comunità italiana e quella tirolese di cui forse qualche italiano sopra i quaranta ricorda qualcosa ma i più ignorano. È vero da questo punto di vista che D’Andrea è abile a muovere tutte le sue pedine su un campo da gioco, quello della provincia dove è nato e cresciuto, in funzione delle storie che vuole raccontare.

Non ho letto i volumi precedenti a Il respiro del sangue La sostanza del male (2016) e Lissy (2017) – ma se è vero che uno scrittore migliora col passare degli anni questo terzo romanzo conferma la bontà della scrittura di D’Andrea. Si rimane avvinti all’intreccio dell’autore bolzanino soprattutto per comprendere quanto ci sia di sovrannaturale nella morte di Erika o quanto essa sia dovuta alla “semplice” crudeltà umana. Intanto D’Andrea torna sul passato di tutti i suoi personaggi ricreando sapientemente il Sud Tirolo della fine degli anni Novanta tra bar, musica, droga e baracchini di cibo spazzatura lungo le strade di montagna. Natura con la enne maiuscola poca, antropizzazione molta, per riassumere.

Se siete arrivati fin qui però vorrete anche sapere se Il respiro del sangue è un romanzo realistico o un romanzo fantastico. Dietro al sorriso del colibrì – un modo di disporre i tarocchi che ricorre per tutta la vicenda – cosa si nasconde davvero? Non posso rivelarvelo per non rovinarvi la lettura del terzo libro di D’Andrea ma vi assicuro che il finale di partita difficilmente vi lascerà l’amaro in bocca. Tutti gli elementi per arrivare alla risoluzione della trama sono a disposizione del lettore fin da subito perché D’Andrea, almeno in questo libro, non vuole prenderci in giro. Arrivo anzi a dire che lo scrittore vuole troppo bene ai suoi lettori, si capisce da come tratta i suoi protagonisti – Tony Carcano e Sibylle – nei cui confronti si accanisce poco.

Chissà se D’Andrea terrà fede alla promessa che mette in bocca a Carcano: ogni romanzo diverso dall’altro evitando personaggi ricorrenti. Dispiace sapere di non incontrare più Freddy, Pollianna e Tante Frida (rispettivamente, il San Bernardo, la collaboratrice domestica e l’avvocato-consulente dello scrittore). Un altro modo di leggere Il respiro del sangue è infatti quello metalettario facendo caso alle frecciatine o ai riferimenti che D’Andrea inanella all’indirizzo del mondo editoriale nostrano: librai, lettori,  editor, agenti ecc. In questo tiene apparentemente conto di uno degli insegnamenti propri a certe scuole di pensiero inerenti alla scrittura: scrivete di ciò che sapete.

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Fabio Bacà, Benevolenza cosmica, non ho nessun accento ma un po’ di sangue italiano

Benevolenza cosmica Fabio Baca

Benevolenza cosmica di Fabio Bacà
Adelphi, febbraio 2019, (cartaceo 18 €, 240 pagine)

«Ogni tanto ho appuntamenti con umani dalle pretese irreali, quasi tutti convinti che una statistica favorevole sia l’incantesimo che li affrancherà da angosce metafisiche di vario tipo».

Come si fa a resistere a un esordio benedetto dal pittogramma di Adelphi? Non si può, mano al portafoglio e Benevolenza cosmica di Fabio Bacà è entrato a far parte della mia biblioteca senza troppe preoccupazioni. Almeno nel mio caso, la combinazione romanzo italiano di illustre sconosciuto quarantasettene più marchio riconosciuto ha funzionato, mi ha spinto all’acquisto sulla fiducia. Ci sono così poche informazioni su questo autore in Internet (non le riporta neppure il sito della casa editrice a oggi) che mi sono chiesto addirittura se un Fabio Bacà esistesse davvero. Solo Fahrenheit è riuscito a rassicurarmi facendomene sentire la voce (cliccate qui per ascoltare il podcast della sua intervista per il libro del giorno).

E dunque, romanzo d’autore marchigiano ambientato in una Londra simile alla nostra, ma alternativa, con protagonista Kurt O’Reilly, sangue italiano da parte di madre e statistico dell’ONS (l’Office for National Statistics britannico), perché la statistica, o meglio, il valore che diamo alle statistiche, è il cardine di Benevolenza cosmica. Impareremo leggendo il romanzo di Bacà come Kurt abbia scelto di intraprendere questa professione affascinato dagli eventi insoliti: “Un evento insolito era quasi sempre più interessante di un evento abituale, e un lavoro che ti permetteva di entrare in contatto ogni giorno con qualcosa di strano non era forse il lavoro ideale?”. Forse no, come avrebbe scoperto in seguito.

Londra alternativa dicevamo, perché è una capitale londinese, quella in cui si muove il protagonista, vittima di attacchi terroristici di matrice non meglio precisata dove però esiste un locale, lo Yellow Airship, partorito dalla fantasia di Bacà dove mi piacerebbe  andarci davvero: “il [suo] design mi lasciava sempre senza fiato. Richiamava la cabina di uno Zeppelin. […] Alla sala principale […]  si accedeva tramite una breve passerella sospesa sul trompe-l’oeil elettronico di un cielo in tempesta”. Oppure è presente in Fenchurch Street, la via del Walkie Talkie per intenderci, un altro grattacielo con in cima una piscina tanto tecnologica quanto metafisica, dove avrei paura a immergermi. Già questi due luoghi dell’immaginario per me valgono il prezzo del libro.

La trama di Benedizione cosmica è riassumibile in una domanda: Cosa fareste se da tre mesi a questa parte tutto, proprio tutto cospirasse a vostro favore? Se a ogni vostra azione (o a volte non azione) si verificasse un evento insolito e “fortunato”: prendete un taxi e non trovate traffico oppure vi viene offerta la corsa; le vostre azioni guadagnano contro tutte le previsioni degli esperti; registrate di continuo l’apprezzamento da parte dell’altro sesso? Vi preoccupereste come Kurt O’Reilly, e tentereste in ogni modo di scoprire il perché. Bacà non ci prende in giro e una sua spiegazione ce la fornisce, spero di non rovinare la sorpresa a nessuno se ho trovato la risoluzione dell’intreccio alla Night Shyamalan.

A me è piaciuto l’esordio di Bacà, arrivati fino a qui l’avrete bell’e capito. Si può poi interpretare Benevolenza cosmica come metafora di ciò cui sei costretto sovente a rinunciare in un momento ben definito della vita (eh, lo so son criptico apposta); oppure può rimanere una lettura piacevole piena di colpi di scena; un elenco cerca e trova delle statistiche reali rispetto a quelle inventate; una guida sui generis di Londra, perché no? È anche un esperimento editoriale interessante, un romanzo così poco italiano (facendo il verso a Stanis La Rochelle di Boris) può interessare un editore estero? Sembra fatto per essere tradotto in inglese, ad esempio. A questo interrogativo potranno dare risposta solo i prossimi mesi.

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Marco Missiroli, Fedeltà, un rogito era la loro grande speranza?

Fedeltà di Marco Missiroli
Einaudi Editore, 2019, 9,99 € ebook (19 € cartaceo, 232 pagine)

Fedeltà di Marco Missiroli

Ogni volta che la cercava prima del sonno, lui cercava anche Margherita: la guardava rannicchiata a letto, la sagoma bruna e il respiro calmo, e la riconosceva. Avrebbe voluto godere per Sofia e godeva per sua moglie e ugualmente pativa per gli orizzonti che non sarebbe mai riuscito a vivere.

E com’è Fedeltà di Marco Missiroli? Valeva la pena per i suoi fan aspettare quattro anni dall’uscita di “Atti osceni in luogo privato” per un suo nuovo romanzo? Il volume pubblicato per Feltrinelli nel 2015 non l’ho letto, e “Il senso dell’elefante”, tanto tempo fa, l’avevo abbandonato dopo le prime pagine, quindi prendete questa segnalazione come il parere di un suo lettore per caso (grazie a Einaudi che mi ha inviato una copia). L’attesa può dirsi ripagata, chiuderete queste 230 pagine domandandovi quanto dovrete aspettare il prossimo libro. Certo farete più o meno fatica nel procedere con la lettura perché Missiroli non ha in mente il lettore occasionale (quello che su IBS ieri ha scritto che “le storie [della vicenda] non si concludono e si perdono”). D’altronde a 38 anni, al quinto romanzo pubblicato nell’arco di quattordici anni, o uno è diventato uno scrittore oppure non lo è stato mai.

Perché ho riportato la recensione di IBS di cui sopra prendendola per vera (certo, potrebbe essere di qualche hater o collega invidioso)? Perché è il punto di “Fedeltà”. I protagonisti della storia sono cinque (sei con Milano, eh oh, pare ci sia in molti libri di questi tempi): Carlo, Margherita, Sofia, Anna e Andrea. Lui e lei, l’altra, la madre di lei più un personaggio a tutto tondo a mio avviso più contradditorio e simile al vero dei primi quattro. Ha davvero cercato Carlo di possedere Sofia nei bagni dell’università? Cosa è disposta a fare sua moglie Margherita per superare questo “malinteso”? Cosa voleva davvero Sofia dal suo trasferimento a Milano da Rimini? Quali riflessioni sulla propria esistenza può trarre la vedova Anna dai ricordi lasciatele dal marito? E Andrea? Di cosa ha davvero bisogno? Della sua professione? Della violenza? Dell’edicola di famiglia? Di un amore?

Sarebbe stato semplice per Missiroli distinguere a una a una queste voci – e magari in una prima bozza l’avrà anche fatto –, ma per tenere lontano il recensore di IBS deluso sopramenzionato ha deciso di farle compenetrare una dentro l’altra. Ovvero, mentre stai leggendo ciò che pensa Margherita ti accorgi che sei passato alle riflessioni di Carlo e poi ancora a quelle di Anna e così via. Non ci sono spazi a indicare le transizioni. Consiglio. Bisogna fermarsi. Appoggiare sul tavolo il libro. Dire: “Ma che cacchio”. E poi riprendere la lettura avendo capito il meccanismo. Sempre che non vi abbia innervosito, del resto non l’ha certo inventato Missiroli, lui l’ha applicato bene a una trama di storie che trovano tutte conclusione. E sono vicissitudini che toccheranno corde sensibili nei nati negli anni Settanta e Ottanta, perché di quelle generazioni parlano. Quelle, riprendendo una frase del padre di Carlo del “Non è colpa vostra se avete lavori da poco”.

Ad avere una vita da poco, lo avrete capito dalle parole del padre, quello che il cliché definirebbe “ingombrante”, è anche Carlo che trova nel tradimento le giustificazioni di tutti coloro che tradiscono – “E se tradire, per lui, fosse stato il modo per tornare a essere fedele a Margherita?” – e una coerenza con una supposta propria vera natura. I tradimenti che non hanno conseguenze sono il leitmotiv di Fedeltà e c’è da chiedersi se possano davvero definirsi tali ma in modo diverso da come li concettualizza Missiroli. Il vero pericolo per la coppia di corso Concordia è rappresentato non a caso da un desiderio non soddisfatto, che pare più una mancata corrispondenza di amorosi sensi che la voglia di lui di farsi una studentessa (“Come non sono la mia storia le mani di un insegnante che mi hanno stretto il culo” dice Sofia; bell’esempio di donna che vuole e sarà padrona della sua vita/narrazione sin dalle prime pagine del romanzo).

E tornando alla sesta protagonista, se c’è una Milano che porta le cicatrici di un cambiamento e, non solo metaforicamente, muore, c’è pure una Milano “brulicante di quartieri e ingorda di sorprese, come un giovane cui viene detto: ora vivi”. Ma nelle pagine di Missiroli, con un ruolo importante per la storia di uno dei personaggi, c’è anche l’intorno di Milano, quello che non viene più chiamato hinterland perché fa troppo anni Novanta, San Donato e i suoi spazi rurali sotto alle rampe della tangenziale. E poi ancora, più tardi, il territorio tra la provincia di Como e la Brianza a simboleggiare forse un luogo di incontro clandestino tra necessità e povertà. In “Fedeltà” Missiroli offre al lettore un biglietto di andata e ritorno alla scoperta del nostro tempo. Non fate l’errore di scendere a metà strada e guardate con attenzione il paesaggio fuori dal finestrino.

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Francesca Mannocchi, Io Khaled vendo uomini e sono innocente

Mannocchi-Khaled-Einaudi
“Io Khaled vendo uomini e sono innocente” di Francesca Mannocchi

Io Khaled vendo uomini e sono innocente di Francesca Mannocchi
Einaudi Editore, 2019, 9,99 € ebook (17 € cartaceo, 208 pagine)

«Vi aspetto tutti al varco, a chiedermi di partire, ipocriti e zozzoni. Miserabili e traditori. […] Sono loro, quelli pericolosi, come diceva il cameraman al fronte sette anni fa, i falsi amici, i mezzi nemici, la zona grigia. Ti ricordi, Murad, come parlava bene, quel cameraman?».

Speculare a “Exit West”, libro di Mohsin Hamid uscito sempre per Einaudi l’anno scorso, Io Khaled vendo uomini e sono innocente di Francesca Mannocchi dà voce non ai migranti ma a chi i migranti dietro compenso li aiuta a partire. I disperati d’Africa e d’Asia non salpano più per le coste dell’Europa per rendere nero il Vecchio continente, come auspicava il colonnello Gheddafi, ma perché se da una parte c’è una domanda (non posso più stare nel mio paese), dall’altra c’è una risposta (pagami e ti metto su un barcone per l’Italia). E il personaggio di Khaled che come prima occupazione gestisce la sicurezza dei dipendenti delle grandi società petrolifere occidentali in Libia risponde a questa domanda nel modo più professionale possibile. Meglio non far morire i propri clienti ad esempio, altrimenti, sai che pubblicità negativa?

“Continueremo a ricattare via mare, e il mare, a sua volta, ci ricatterà” afferma Khaled ricordandoci come la Libia non abbia altra risorsa che il petrolio e sia costretta a ricevere materie prime e beni di consumo dall’estero. In cambio di cosa? In cambio di trattenere entro i propri confini i migranti, o almeno, di farli partire un po’ per volta perché all’Occidente fa comodo in fondo che i barconi in mare ci siano sempre. I libici si lamentano di essere sfruttati da italiani e francesi ma rimangono seduti fuori dai bar a far scorrere la propria vita invece di cambiare lo stato delle cose, riflette il trafficante. Anche la guerra, è davvero finita con la morte di Gheddafi nel 2011? Alcuni si erano illusi di sì, prima dell’inizio dei conflitti tra le milizie, ed erano perfino andati a combatterne un’altra in Siria, ammaliati dal carisma di alcuni capi mercenari.

Il personaggio di Khaled invece ha deciso di votarsi a un traffico che al pari della guerra non si estinguerà mai – forse si affievolirà –, ma più sicuro: il traffico di esseri umani.  Khaled the smuggler, lo chiamano gli inglesi degli impianti petroliferi che protegge, tutti sanno tutto in Libia del resto perché lì “i muri hanno le orecchie”. E Mannocchi è abile a farcelo conoscere piano piano questo personaggio che ascolta i Die Antwoord, che ha fatto la guerra, che ha perso persone care, che protegge la sua famiglia di Misurata, che dà lavoro, che viene definito da uno dei suoi clienti “una brava persona”. E un po’ ti ci affezioni a Khaled fino a quando non vengono svelati nuovi particolari mentre il romanzo avanza, d’altronde, come si può rimanere brave persone a vendere uomini?

Ho citato all’inizio di questo post un altro romanzo Einaudi sul fenomeno migratorio, ricordate? “Exit West” di Mohsin Hamid. In quella storia le persone non fuggivano dai loro paesi prendendo la strada del deserto e poi il mare ma attraverso comuni porte che di punto in bianco davano accesso ad altre porte qui in Occidente. Tutti hanno un maestro e anche Khaled il mestiere se l’è fatto insegnare da uno che i barconi li faceva partire anche sotto Gheddafi, Husen. Sentite cosa afferma: “Una volta che hanno pagato e sono sopra, stop, non sono più affari nostri, sono nelle mani di Dio. Noi comandiamo sulla terra, il mare non è nostro, Khaled. Gli facciamo attraversare una porta, ma una volta che l’hanno superata, Stop”. Avete capito di quali terribili porte si tratta?

E leggendo Mannocchi mi sono venute in mente anche alcune cose che scrive Simone Perotti sul suo blog a proposito del Mediterraneo, quanto sia in potenza un elemento unificante, perché tutte le città di questo piccolo mare si guardano l’un l’altra dopotutto e allora perché non cercare una koinè che già un tempo è esistita e potrebbe tornare ancora? Forse per via della facilità con cui si fanno i soldi con i traffici illeciti laddove uno stato non esiste più come in Libia. E se anche un’autorità statale forte tornasse sotto forme più o meno democratiche, chi ci assicura che la corruzione dilagante non spingerebbe comunque i libici a ricorrere al traffico di esseri umani come un mezzo per arricchirsi in fretta? Intanto se Khaled è innocente decidetelo voi dopo aver letto il libro.

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Ester Viola, Gli spaiati, inizio a pensare che per alcuni sia una scelta

Gli spaiati di Ester Viola

Gli spaiati di Ester Viola
Einaudi Editore, 2018, 8,99 € ebook (17 € cartaceo)

«”Diteci che io non sono fessa, la vedo. Fa la scema pure col vicino vostro, l’ingegnere. Quello che vi dovevate sposare voi, se tenevate ‘a capa ‘n capa”».

Qualcosa non mi tornava girata l’ultima pagina di L’amore è eterno finché non risponde – titolo d’esordio per Einaudi di Ester Viola nel 2016e sono contento, ora che ho finito il seguito, “Gli spaiati” appunto, di aver capito per quale motivo. Ritroviamo l’avvocato Olivia Marni, personaggio cui con tutta probabilità vi affezionerete se già non l’avevate adottato nel primo libro, incredibilmente imbrogliata in una relazione funzionale. Trasferitasi da Napoli a Milano per seguire il suo capo Luca fresco di separazione dalla moglie Carla, Olivia ci fa partecipe delle sue riflessioni su cosa significhi essere in coppia con qualcuno che un rapporto lo sa condurre. Ma è questo che la nostra quarantenne vuole? Non è che una volta raggiunto l’obbiettivo di essere felici in due non ci si possa rendere di colpo conto che non faccia per noi? Non è che esistono gli spaiati per natura?

Cosa mi è piaciuto de “Gli spaiati”: Milano. Se nel primo libro una delle protagoniste era la città di Napoli (immancabile anche ne “Gli spaiati” dove compare come attrice non protagonista), la Milano della borghesia meneghina, quella che può permettersi le case e i vestiti che compaiono negli inserti settimanali del Corriere della Sera, è comprimaria a tutti gli effetti. Forse perché palcoscenico più adatto – “Milano non si intromette” – del capoluogo partenopeo della nuova vita di Luca e Olivia. Un’esistenza tranquilla da coppia in carriera dove lui può continuare a essere il papà dei due figli nell’appartamento accanto e lei chiedersi quanto gli stia bene un uomo che non le dà alcun motivo di dubitare del suo sentimento. Tutto bene? Non proprio visto che stare insieme a Luca significa aver perso Viola (primo amore di lui), la migliore amica e la confidente più cara dell’ex-spaiata.

E quindi siamo di fronte a problemi da primo mondo? Beh, sì, non si capiva dal titolo? O per meglio dire, siamo in un mondo alternativo dove tutti noi siamo scritti da Nora Ephron, non certo per caso evocata con nome e cognome a un certo punto de “Gli spaiati”. La sospensione dell’incredulità è obbligatoria perché l’assunto da cui parte Ester Viola è l’estrema attenzione che tutti i personaggi nutrono nei confronti degli altri. Olivia è ipersensibile a ogni minimo segnale che le viene lanciato, anche in modo inconsapevole, dalle persone che la circondano. E questo è applicabile a tutti gli uomini e le donne che incontreremo lungo il libro, esperti sopraffini dell’interpretazione del comportamento umano. Eppure, l’esperienza ci dice che l’indifferenza è il primo abito mentale che, almeno nell’Italia settentrionale, ti abitui presto a indossare.

Cosa non mi è piaciuto: aver capito molto presto le mire di uno dei personaggi (ma vallo a sapere, magari Ester Viola l’ha fatto a bella posta) fondamentale per la risoluzione della trama. D’altro canto, però, sarò troppo ingenuovedi a questo proposito la mia irritazione su come era finito il primo libro –, non mi aspettavo per niente il finale de “Gli spaiati” che mi auguro possa rimanere parte di un dittico perfetto. Non ce la vedo Olivia Marni protagonista di un terzo capitolo conclusivo, perché non c’è portata l’avvocato alle conclusioni. Le sciagure sentimentali non le prevedono perché hanno insito il preludio di una nuova e quindi, a rigor di logica, le loro non si possono definire conclusioni autentiche. Nemmeno l’incedere dell’età può confortare, chi è spaiato è spaiato anche quando uno si aspetterebbe di aver raggiunto per esperienza una certa maturità amorosa.

Potrebbe sembrare che stia augurando a Ester Viola di smettere di scrivere. Non è così. Quel che auspico è che possa, vista la sua facilità di scrittura, abbandonare il personaggio di Olivia Marni per raccontarci altre storie. E forse ha già iniziato a pensarci, perché “Gli spaiati”, a mio avviso, narra una complicata storia d’amore che rimane sempre dietro le quintenascosta e ciò nonostante alla portata di tutti, come un faldone del labirintico tribunale di Napoli – e che non è riconducibile alla voce narrante di questo libro. Posso aver sbagliato in pieno la mia interpretazione del testo ma più volte mi è capitato di pensare: i veri protagonisti chi sono? P.S. Anche se aiuta a comprendere meglio i rovelli di Olivia, non è necessario leggere prima di questo libro “L’amore è eterno finché non risponde”. P.S.S. Viola ci dice che un ex-spaiato è uno spaiato che ha smesso… ma che rimane sempre tale proprio perché “vuole essere felice a tutti i costi con qualcuno”.

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Alessandro Baricco, The Game, come una sorta di vibrazione

The Game di Alessandro Baricco

The Game di Alessandro Baricco
Einaudi Editore, ottobre 2018, 330 pagine, (18 € cartaceo; 9,99 € ebook)

«Sappiamo con certezza che ci orienteremo con mappe che ancora non esistono, avremo un’idea di bellezza che non sappiamo prevedere, e chiameremo verità una rete di figure che in passato avremmo denunciato come menzogne».

Se il nuovo libro di Baricco The Game ha un torto è quello di avere lo stesso titolo di un film di Fincher del 1997 con Michael Douglas, preistoria, un film di più di vent’anni fa che mi ricorda di essere sulla soglia dei quaranta. Aneddoti personali a parte, “The Game” – come avrebbero detto nel Novecento – è un utile vademecum per capire come siamo arrivati fin qui. Ovvero, come siamo passati dal mondo dei telefoni fissi della fine degli anni Novanta a quello di oggi, dove ci potrebbe capitare di spiegare ai nostri figli che “cos’è” un telefono fisso. Baricco si prende questa briga, del resto il saggio che avete per le mani è il risultato di mesi e anni di ricerche che poi sintetizzati sono stati distillati in poco più di trecento pagine (sempre che non lo stiate leggendo su un e-reader e allora in ore non so dirvi quanto ci vuole per finirlo).

A seconda di quando siete nati, e di quanto siete impallinati con la tecnologia, troverete “The Game” più o meno interessante. Poteva essere il canovaccio di uno spettacolo teatrale – forse non a caso è stato presentato al Parenti di Milano a metà ottobre –, Baricco ha deciso di cristallizzare la sua riflessione sui tempi odierni in un libro, ideale seguito de “I barbari”* che tanto fece discutere nel 2006. L’ha fatto per rompere le scatole ovviamente a quell’élite intellettuale che lo tiene ai margini da quando ha avuto l’ardire di avere successo, come spiega bene Davide Rossi su Link in Apologia di Baricco, e un po’ per chiarirsi le idee lui per primo su cosa diavolo sia successo negli ultimi quarant’anni. Ci siamo avvitati in un processo di perdita dell’aura dell’intera realtà o c’è in giro una nuova vibrazione di cui dobbiamo prendere coscienza? Non facciamo tutti parte di un gioco inventato in California che ha mappato tutta la realtà e ce l’ha restituita elaborata? Allora giochiamo.

Come tutte le semplificazioni a scopo divulgativo “The Game” salta dei passaggi. Fa un po’ sorridere la sequenza utilizzata da Baricco: primi videogiochi (Pong ecc.) -> videogiochi da bar -> PlayStation… se siete cresciuti con il Nintendo e il Sega Master System. Fa un po’ strano, alla fine dei paragrafi dedicati al nuovo modo di concepire l’esperienza, non trovare uno straccio, uno, di riferimento ai punti esperienza di Dungeons & Dragons (del resto i giochi di ruolo non sono stati considerati da Baricco eppure tanto spiegherebbero del modo attuale di intendere l’apprendimento). Però, d’accordo, glieli si perdona. L’altro aspetto che lascia perplessi è il riferimento dell’autore al “vecchio Steve Jobs” (p. 130) quando si fa caso all’anno di nascita del fondatore della Apple, il 1955, paragonandolo a quello di Baricco, il 1958. Parole d’affetto? Oppure non si sente vecchio quanto lui?

Superate le prime due parti del saggio – L’epoca classica (1981-1998) e La colonizzazione (1999-2007) – arriverete a quella più intrigante, The Game (2008-2016) in cui Baricco si spinge praticamente ai nostri giorni analizzando anche il Movimento 5 Stelle (“È come se fossero digitali senza esserlo”) e smontando molto del senso comune che la gente (sì, parlo dell’uomo della strada e anche del sottoscritto a volte), mette in campo senza timore del ridicolo quando parla dei pericoli della Rete: “Il fatto che la Rete bene o male ti faccia arrivare solo le notizie che vuoi leggere, […] è un[a] cosa che può davvero temere gente che ha conosciuto le parrocchie, le sezioni di partito, il Rotary, il telegiornale di quando non c’era la Rete e i giornali degli anni ’60?”.

Bella domanda, no? Ancora meglio la definizione che viene subito dopo: “Il Game c’è, funziona, ma a giocarlo è gente che inizia ad odiarlo. Tecnicamente allineata, e mentalmente dissidente”. Ora, avrete capito che “The Game”, pur non nascondendone le storture, propone una visione ottimistica del futuro, esplicitata a chiare lettere nelle riflessioni dedicate alla verità e all’arte e alle 25 tesi finali (tra le quali: “È l’umanesimo che deve colmare un ritardo e raggiungere il Game”; Baricco non è il primo a dirlo ma sarebbe bello vedere questo proposito realizzato). Abbiamo inserito la monetina molto tempo fa e per dirla alla Pascal molto meglio giocare che non giocare.

* È Baricco stesso a dichiararlo a pagina 204: “Neanche ci provo a spiegarvi cosa esattamente significa [l’espressione Intelligenza Artificiale, ndr], ci penserò tra dieci anni quando scriverò la terza puntata della saga dei Barbari”.

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Pierre Michon, Gli Undici, e soprattutto non vedo i cavalli

Gli Undici di Pierre Michon

Gli Undici di Pierre Michon
Traduzione di Giuseppe Girimonti Greco
Adelphi, settembre 2018, (cartaceo 16 €, 134 pagine)

«”Vuoi onorare un’ordinazione, cittadino pittore?”».

Ho comprato e letto Gli Undici di Pierre Michon in formato cartaceo perché credo Adelphi non abbia acquistato i diritti per l’edizione elettronica italiana di questo romanzo breve. I lettori sono quindi avvisati, non lo troverete in formato digitale. Ed è un peccato, Michon meriterebbe la più grande diffusione possibile, ha uno stile che ti tiene avvinto al racconto mentre ti trasporta in un altro tempo e più precisamente, almeno nel caso de “Gli Undici”, nella seconda metà del Settecento francese. Un modo di scrivere quello di Michon che non piacerà a tutti, del resto mi sono deciso a leggerlo per via di una recensione negativa su Amazon: “I couldn’t find a plot to save my life. […] Don’t waste your time”.

Sbaglio più grande non avrei mai fatto a fidarmi del lettore deluso di cui sopra. “Gli Undici” è un romanzo storico incentrato su un pittore mai esistito, Corentin, autore di un’opera mai dipinta, Les Onze (Gli Undici), raffigurante i componenti del Grande Comitato della Rivoluzione francese. Il libro si divide in due parti, la prima narra la genealogia e l’infanzia di Corentin, la seconda si concentra sulla commissione del dipinto al pittore ormai anziano e sulla descrizione di questa opera magnifica e monumentale, che come tutti sanno è custodita al Louvre. “Ecco perché le folle di tutto il mondo sfrecciano, senza neanche vederla, davanti alla Gioconda […] e si piazzano lì, davanti al vetro a prova di proiettile”.

Ed è davanti a frasi come questa che bisognerebbe posare il libro, alzarsi in piedi e applaudire (sì, esiste più di una GIF per farlo ma questo è un post vecchia maniera) l’abilità di Michon. Perché per qualche istante ci credi che “l’intera, colossale freccia del Louvre […] è forse stat[a] pensat[a] dal Grande Architetto al solo scopo di condurci al cuore di questo grande bersaglio in cui l’intero Louvre si inabissa senza fare una piega”. Nel momento in cui leggiamo “Gli Undici” l’opera omonima esiste e basta prendere un aereo per Parigi per andare ad ammirarla, o no? E allora se quella Parigi non esiste, non siamo dunque dalle parti dell’ucronia, o per chi snobba i romanzi di genere, sulle orme di “Finzioni” di Borges?

Credo di avervi dato le coordinate giuste per decidere se seguire Michon nel suo periodare fatto di ripetizioni e sovrapposizioni, tante pennellate di parole meditate una per una per anni che alla fine danno vita a “Gli Undici” o alla vita di Corentin narrata nella prima parte del romanzo. Una vita quella di questo pittore immaginario che, a credere alle parole di Alice De Gregoriis su “L’Indiependente”, riecheggia quella dello scrittore stesso, ossessionato dalla scrittura perché abbandonato dal padre, da qui il tentativo di “sostituire il padre biologico con quelli letterari”; guarda caso stessa sorte toccata a Corentin, affidato alla nonna e alla madre per le ambizioni letterarie del papà e dedicatosi anima e corpo alla pittura.

Una trama, come potete capire, l’ho trovata ne “Gli Undici”, eccome se c’è. E se non vi interessasse seguirla, c’è il sangue e il sudore dell’Europa pre-industriale; ci sono i cieli transalpini che si specchiano nei canali vicino a Orléans; ci sono gli inverni lunghi e spietati rappresentati in tanti dipinti; c’è la società dei salotti illuministi che gettava inconsapevolmente le basi di una società nuova senza padri e madri di stirpe regale; c’è il fanatismo che faceva cadere quaranta teste al giorno in nome della Rivoluzione; c’è la Storia incarnata alla Hegel in un quadro che Michon ci descrive così bene da strapparlo al mondo delle idee per portarlo nel nostro con tanto di cornice; c’è l’amore per la parola scritta capace di aprirci ad altre realtà.

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