Archivi tag: einaudi ebook

Rachel Kushner, Mars Room, il mondo va avanti da tanto, tantissimo tempo

Mars Room di Rachel Kushner

Mars Room di Rachel Kushner
Traduzione di Giovanna Granato, Einaudi editore, aprile 2019, (cartaceo 20 €, 344 pagine; ebook 9,99 €; letto grazie a una copia gratuita inviata dall’editore)

Partì un allarme. Io nel frattempo parlavo con la ragazza. Le ricordavo di respirare. Lei continuava a ripetere “no”, come se non volesse avere il bambino, come se potesse impedire al futuro di fondersi con il presente.

Mi ritengo fortunato ad aver letto Mars Room di Rachel Kushner,  soprattutto d’ora in poi alla domanda “Mi consigli un romanzo fatto bene?” avrò la risposta pronta. Già autrice di due romanzi storici, pubblicati in Italia da Ponte alle Grazie, Kushner ci riporta nella sua nativa California all’inizio degli anni Duemila  quando l’omicida Romy Leslie Hall viene tradotta in carcere per scontare i suoi due ergastoli in un carcere della Central Valley. Un assaggio di tutto quel che l’aspetta in galera avviene proprio sul cellulare: la riduzione a numero, la vicinanza al disagio mentale, la correzione dei devianti, le regole non scritte dei luoghi di reclusione, la punizione delle minoranze, perfino la morte.

A riprova che il mito degli Stati Uniti d’America come terra promessa delle opportunità sia, appunto, solo un mito, Romy Leslie Hall ci racconta la sua giovinezza mentre lentamente si assuefa alla vita carceraria. Come poteva, data la sua storia famigliare e il suo status sociale, sottrarsi alla Notte delle Catene? Puntuale come un carro bestiame (o un camion di tacchini stipati in minuscole gabbie diretti al macello), una volta a settimana, dalla casa circondariale di Los Angeles sessanta persone vengono portate in prigione. E chi credete che ci finisca dietro alle sbarre negli States? Chi non può permettersi un buon avvocato, chi non ha la pelle bianca o chi pur avendola è “spazzatura bianca” o, alla Manson, dà fuori di matto.

L’innocenza è propria solo dei bambini, Romy Leslie Hall ha un figlio che le cura la madre e di cui parla spesso. Rachel Kushner dona alla sua protagonista il tipico bambino aperto al mondo, quello che ti lascia a bocca aperta per le uscite che fa sulla realtà che lo circonda, quello che ti aspetti diventerà uno scienziato da grande, quello che non smarrirà la strada verso un futuro di fratellanza e di pace. Eppure se la madre l’innocenza l’ha persa sulle soglie dell’adolescenza come possiamo credere che il destino di Jackson possa rivelarsi diverso? Dobbiamo credere che ce la farà, in particolare dobbiamo credere che ce la farà da solo, senza la madre, che è ormai parte di un universo diverso, quello carcerario americano, che di bambini, perfino quando ne nascono fra le sue mura, non ne vuole sapere.

Non so quanto ci sia di verosimile nella ricostruzione dell’ambiente carcerario fatta da Kushner, quel che è certo è che ti passa l’angoscia delle detenute una riga per volta, sia di quelle speciali, quelle rinchiuse nel braccio della morte – chiamato in un altro modo per non turbare le guardie, suggerisce Romy Leslie Hall –, sia di quelle ordinarie, quelle che hanno solo un ergastolo oppure dalla galera entrano ed escono perché la concepiscono come la loro vera casa. Intelligente l’alternanza dei punti di vista, la vicenda viene raccontata tra gli altri anche da Gordon Hauser incaricato di insegnare l’inglese alle detenute. Hauser vive sulle montagne vicino al carcere che sono tutt’altro che un luogo incontaminato come anche alcuni inserti di finti diari di Theodore Kaczynski ci ricordano.

Ambizioso, intelligente e “sentito”, tre aggettivi che posso associare a Mars Room, nome non solo del romanzo ma anche del locale in cui Romy Leslie Hall si esibisce per guadagnarsi da vivere, un lavoro che Kushner non giudica come non giudica nessuno dei suoi personaggi. “Per voi sarebbe stato tutto diverso” fa affermare alla sua protagonista, ma è davvero così? Quanto di quello che ha inciso sulla nostra vita dipende dall’ambiente che ci ha formato rispetto a quello che abbiamo deciso di essere di nostra propria volontà? È una fortuna o una sciagura che Romy Leslie Hall possegga le capacità di riflettere su quel che le è accaduto?

Lascia un commento

Archiviato in ebook recensioni

Joe R. Lansdale, Hap and Leonard – Sangue e limonata, ma la quercia e il lago non ci sono più

Hap & Leonard – Sangue e limonata

Hap & Leonard – Sangue e limonata di Joe R. Lansdale
Traduzione di Luca Briasco, Einaudi editore, marzo 2019, (cartaceo 17 €, 212 pagine; ebook 9,99 €)

Amo molto le storie che trovate qui raccolte. Non sono tutte eroiche o avventurose, ma colmano un’ampia serie di carenze e di punti oscuri e forniscono informazioni che non troverete mai negli altri miei libri. Soprattutto su Hap.

Non ho letto nessuno dei romanzi di Joe R. Lansdale con protagonisti Hap & Leonard e probabilmente ora mi trovo in compagnia di chi ha scoperto questa coppia di investigatori solo con la serie TV. Ho quindi la fortuna di poter leggere d’ora in avanti in ordine cronologico tutto il ciclo a loro dedicato – partendo da “Una stagione selvaggia” fino ad arrivare a “Il sorriso di Jackrabbit” (uscito nel 2018) essendo partito dai quattordici racconti di Hap & Leonard – Sangue e limonata, che raccontano l’infanzia e l’adolescenza dei due detective. Inviandomi questa copia omaggio Einaudi si è in pratica assicurata da parte mia l’acquisto di almeno una decina di libri! Ah, Joe R. Lansdale nella postfazione ci tiene a precisare che “Sangue e limonata” è un romanzo a mosaico e anche così si può considerare.

Lansdale ci riporta agli anni Cinquanta e Sessanta quando nel Texas orientale i neri stavano con i neri e i bianchi con i bianchi, in virtù della segregazione razziale e della mentalità stessa dei bianchi, che tutto potevano accettare tranne che un nero avesse i loro stessi diritti. Come fai a spiegare oggi a una ragazza o a un ragazzo che se hai la pelle di un colore diverso dal bianco non puoi permetterti di entrare in un negozio dalla porta principale? Che se ti metti dalla parte dei neri sei un traditore della “razza bianca” e devi essere punito o perfino eliminato? Oltre a suggerirgli un buon testo di storia, gli consigli di leggere “Sangue e limonata” che nel racconto omonimo e in “Una pausa per il caffè” lo spiegano molto bene.

Un altro tema trasversale a tutti i racconti di questa raccolta è quello della giustizia, evidente fin dal racconto di apertura, “La parabola del bastone”, che mette in dubbio le logiche del sistema educativo americano attuale che sanziona sia il bullo sia la vittima del bullo, in caso questa abbia cercato di difendersi con la forza dalle angherie del primo. In “Il bambino che diventò invisibile” si torna sull’argomento della crudeltà tra pari in ambito scolastico – e sui meccanismi che portano all’esclusione del più debole – portandolo alle estreme conseguenze, fino a che punto ci si può ribellare a una palese ingiustizia?

Il lettore italiano, almeno il sottoscritto, non può non notare un altro elemento evidente di “Hap & Leonard – Sangue e limonata”: la pervasività dell’utilizzo delle armi, e di converso della liceità dell’atto violento. Si va dal coltello fino al fucile ma in quasi tutti i racconti un’arma è presente. Necessaria perché funzionale alla caccia, del resto. Perché si cacciava o pescava in Texas negli anni Cinquanta/Sessanta? Non per sport ma per arricchire una dieta altrimenti povera di proteine. Ci viene ben spiegato da Lansdale che nel racconto “In riva al fiume” fa finire un’amicizia del suo giovane protagonista Hap con un altro ragazzino, Davis, proprio per questo motivo, se la caccia o la pesca diventa pretesto per sfogare le proprie frustrazioni allora perde senso.

Le pagine della raccolta di Lansdale non tratteggiano soltanto la società texana di quarant’anni fa e il passato Hap – il suo rapporto con la madre e il padre, l’inizio dell’amiciza con Leonard –, descrivono a chiare lettere come l’ambiente naturale di questa parte degli Stati Uniti abbia battuto in ritirata di fronte all’avanzata inesorabile dell’uomo. Se prima bastava uscire di casa per entrare in un bosco, adesso il laghetto della vecchia cava è stato riempito e la quercia abbattuta per fare spazio a un’ordinata infilata di alberi da legna e così via. Nostalgica ma non malinconica, “Hap & Leonard – Sangue e limonata” è l’introduzione ideale per fare i primi passi nel Texas di Lansdale.

Lascia un commento

Archiviato in ebook recensioni

John Niven, Uccidi i tuoi amici, fa freddo lì fuori

Uccidi i tuoi amici di John Niven

Uccidi i tuoi amici di John Niven
Traduzione di Marco Rossari, Einaudi editore, marzo 2019, (cartaceo 18,50 €, 348 pagine; ebook 9,99 €)

In quanto persona che si guadagna da vivere prevedendo e formando il gusto di milioni di dementi senza gusto, devi ripeterti che le sensazioni che provi tu sono universali, che le cose che pensi e le sensazioni che provi sono pensate e provate da milioni di altre persone.

Come spesso capita quando uno scrittore straniero trova un suo pubblico affezionato qui in Italia si procede sistematicamente a tradurre tutta la sua produzione. Il successo può arridire subito o a scoppio ritardato. Succede così che, seguendo la logica completista di cui sopra, il primo libro di John Niven – Uccidi i tuoi amici, uscito in Inghilterra nel 2008 ci venga proposto da Einaudi (grazie per la copia omaggio!) a dieci anni di distanza.   Tenendo conto che Niven in questo suo romanzo ci raccontava il 1997 di Steven Stelfox, un talent scout londinese, siamo quasi di fronte a un documento storico. Come ve la passavate vent’anni fa? Steven benissimo, sguazzante com’è nei fiumi di soldi, droga, alcol e sesso caratterizzanti il suo ambiente lavorativo, l’industria discografica pre-Napster.

Affrontato a cuor leggero “Uccidi i tuoi amici” regala divertimento e risate. Certo se non avete problemi con il linguaggio esplicito utilizzato dall’autore che proprio come il suo protagonista è privo di filtri. Niven procede per accumulo mostrando il suo giovane protagonista senza passato (solo alla fine del romanzo si scoprirà che è figlio unico e che ha ancora una madre) in preda a tutti i suoi vizi. Efficace da questo punto di vista la descrizione della propria mente che Steven ci spiega all’inizio del romanzo. Una sala controllo in stile Inside Out della Disney vietata ai minori, dove le sostanze psicoattive hanno da tempo bruciato qualsiasi possibilità di pensiero razionale che non sia la soddisfazione immediata dei propri bisogni e il riconoscimento sul lavoro di essere al top.

E visto che tutti i bisogni si realizzano grazie al denaro – “Penso sempre ai soldi.  Io ho due mutui, un prestito ponte, un fido e sei carte di credito più tutte le spese mensili” – la priorità per Steven è imbroccare un paio di successi all’anno mettendo sotto contratto il musicista giusto. Scoperto attraverso la propria abilità e il proprio sapere musicale? Assolutamente no, quest’aspetto della professione di talent scout discografico è rappresentato non a caso da un altro personaggio, Parker-Hall, uno a cui la musica pare, che ribrezzo, piacere davvero. Steven va avanti confidando nella fortuna investendo migliaia di sterline nella produzione di musicisti che non ha idea se riusciranno o meno a sfondare sul mercato.

In questo senso il libro di Niven funziona come metafora di qualsiasi industria che non abbia indicatori chiari su come portare a casa i risultati in base all’impegno profuso nello sforzo: potete spaziare dallo sport fino all’editoria e fare i paralleli con gli ambienti che meglio conoscete. In particolare, i festival musicali sembrano nient’altro che feste infinite dove gli addetti del settore strafatti non riescono neppure ad abbandonare le stanze degli alberghi per andare ad ascoltare un concerto. Il vero banco di prova per capire se un brano piace o meno sono le discoteche dove la bestia, il pubblico inglese, reagisce a caldo alla novità più grezza e becera su cui sono proprio i discografici stessi i primi a nutrire i dubbi maggiori.

Stelfox a dispetto del titolo non ha amici e i suoi colleghi sono in fondo tutti delle possibili minacce al suo dispendiosissimo stile di vita (da loro condiviso sia ben chiaro, viene citato non a caso quale sia il meglio della vita per Conan il barbaro all’inizio del romanzo). Stupisce quindi che si debba aspettare quasi un quarto del libro per assistere alla messa in scena di un tentato omicidio, preludio di tutto quel che capiterà dopo… esistono molti modi per mettere fuori gioco un avversario. Politicamente scorretto, misogino e cinico “Uccidi i tuoi amici” piacerà oltre ai fan di Niven a chi oggi trova ancora divertenti film come “Lock & Stock – Pazzi scatenati” o, per rimanere nel nuovo secolo, “Una notte da leoni”.

Lascia un commento

Archiviato in ebook recensioni

Kristen Roupenian, Cat Person, una raccolta di orrori

Cat Person (racconti) di Kristen Roupenian

Cat Person di Kristen Roupenian
Traduzione di Cristiana Mennella, Gianni Pannofino e Maurizia Balmelli
Einaudi, febbraio 2019, (cartaceo 17,50 €, 252 pagine; ebook 9,99 €)

«Ragazza degli snack, dammi il tuo numero, – disse, e sorprendendo sé stessa lei glielo diede».

Ero curioso di leggere Cat Person tradotto in italiano. L’avevo intercettato su Internet, insieme a milioni di altri lettori, quando era uscito nel dicembre del 2017 su “The New Yorker”. Per chi ancora non lo sapesse, quell’Everest di visualizzazioni ha portato la sua autrice, Kristen Roupenian, a siglare un contratto a sette cifre con la Scout Press per la stesura di due libri, il primo è appunto la raccolta di racconti “You Know You Want This” pubblicato in Italia col titolo “Cat Person” (dedicato quindi innanzitutto a chi era piaciuto il racconto uscito sul New Yorker). Ringrazio Einaudi che mi ha fatto dono di una copia prima che potessi comprarlo. E quindi? Questa raccolta di dodici racconti scritti dalla scrittrice ed esperta di gatti (così la sua biografia su Twitter) Kristen Roupenian com’è?

È un mix di racconti fantastici e realistici. Già qui Roupenian spiazza la sua lettrice o il suo lettore che di “Cat Person” aveva apprezzato lo specchiamento con la propria esperienza personale. La scrittrice vuole raccontare altri genere di storie e sin da subito Ragazzaccio, che apre la raccolta, mette sulla buona strada raccontando come un rapporto amicale possa trasformarsi in una storia di cronaca orrenda e plausbile sebbene grottesca. Look At You Game, Girl viceversa ritorna su binari realistici narrando il possibile (?) incontro di una ragazzina con un tipo strambo. Neanche il tempo di rifiatare e Sardine ci riconsegna alle fantasie di vendetta tramutate in realtà di una madre separata.

Come considerare poi Il lettore notturno? Quanto credere al volontario internazionale di stanza in Kenya alle prese con una classe di ragazzine impossibili e una leggenda locale? Siamo ancora dalle parti del plausibile mentre con Lo specchio, il secchio e il vecchio femore torniamo al fantastico con la fantasia gotica di un’antica corte dove una principessa poi regina scivola piano piano verso una lucida follia. A metà raccolta Roupenian o i suoi editor collocano Cat Person, racconto più realistico che realistico non si può di una relazione (?) disastrosa. In quarta di copertina Einaudi ha scritto che i legami tra genere, sesso e potere descritti da Roupenian sono “ferocemente divertenti”. Da divertirsi c’è ben poco. C’è molta angoscia, questo di sicuro.

Il settimo racconto Il bravo ragazzo fin dal titolo si contraddice: chi è un bravo ragazzo, specialmente il protagonista immaginato da Roupenian, non lo è per nulla e se smascherato (o autosmascheratosi) si merita la punizione più severa. Il ragazzo della piscina avrebbe meritato qualche pagina in più: può una fantasia preadolescienzale avere ancora uno scopo una volta diventati adulti? E se sì perché e per chi? In Non avere paura torniamo sul fantastico (o allegorico) incontrando una donna e l’uomo da lei evocato, letteralmente. Sempre a questo genere appartiene La prova nel portafiammiferi che racconta di una coppia di San Francisco in crisi.

Gli ultimi due racconti, realistici sebbene estremi – Voglia di morire e Mordere – parlano rispettivamente di un appuntamento su Tinder in grado di cambiarti la vita e di come reagire alle molestie assecondando la propria natura non sia sbagliato. In conclusione: Roupenian non disdegna l’orrido, gli escrementi e il sangue (prima di Cat Person era riuscita a pubblicare principalmente online su testate di genere come “Body Parts Magazine” e “Weird Fiction Review”) e, visto che è nata nel 1981, mi permetto di suggerire che il suo immaginario rimanda a film come Schegge di follia (Heaters) decisamente virati all’horror e allo splatter. Io ho apprezzato le sue storie realistiche, meno le altre.

Lascia un commento

Archiviato in ebook recensioni

Marco Missiroli, Fedeltà, un rogito era la loro grande speranza?

Fedeltà di Marco Missiroli
Einaudi Editore, 2019, 9,99 € ebook (19 € cartaceo, 232 pagine)

Fedeltà di Marco Missiroli

Ogni volta che la cercava prima del sonno, lui cercava anche Margherita: la guardava rannicchiata a letto, la sagoma bruna e il respiro calmo, e la riconosceva. Avrebbe voluto godere per Sofia e godeva per sua moglie e ugualmente pativa per gli orizzonti che non sarebbe mai riuscito a vivere.

E com’è Fedeltà di Marco Missiroli? Valeva la pena per i suoi fan aspettare quattro anni dall’uscita di “Atti osceni in luogo privato” per un suo nuovo romanzo? Il volume pubblicato per Feltrinelli nel 2015 non l’ho letto, e “Il senso dell’elefante”, tanto tempo fa, l’avevo abbandonato dopo le prime pagine, quindi prendete questa segnalazione come il parere di un suo lettore per caso (grazie a Einaudi che mi ha inviato una copia). L’attesa può dirsi ripagata, chiuderete queste 230 pagine domandandovi quanto dovrete aspettare il prossimo libro. Certo farete più o meno fatica nel procedere con la lettura perché Missiroli non ha in mente il lettore occasionale (quello che su IBS ieri ha scritto che “le storie [della vicenda] non si concludono e si perdono”). D’altronde a 38 anni, al quinto romanzo pubblicato nell’arco di quattordici anni, o uno è diventato uno scrittore oppure non lo è stato mai.

Perché ho riportato la recensione di IBS di cui sopra prendendola per vera (certo, potrebbe essere di qualche hater o collega invidioso)? Perché è il punto di “Fedeltà”. I protagonisti della storia sono cinque (sei con Milano, eh oh, pare ci sia in molti libri di questi tempi): Carlo, Margherita, Sofia, Anna e Andrea. Lui e lei, l’altra, la madre di lei più un personaggio a tutto tondo a mio avviso più contradditorio e simile al vero dei primi quattro. Ha davvero cercato Carlo di possedere Sofia nei bagni dell’università? Cosa è disposta a fare sua moglie Margherita per superare questo “malinteso”? Cosa voleva davvero Sofia dal suo trasferimento a Milano da Rimini? Quali riflessioni sulla propria esistenza può trarre la vedova Anna dai ricordi lasciatele dal marito? E Andrea? Di cosa ha davvero bisogno? Della sua professione? Della violenza? Dell’edicola di famiglia? Di un amore?

Sarebbe stato semplice per Missiroli distinguere a una a una queste voci – e magari in una prima bozza l’avrà anche fatto –, ma per tenere lontano il recensore di IBS deluso sopramenzionato ha deciso di farle compenetrare una dentro l’altra. Ovvero, mentre stai leggendo ciò che pensa Margherita ti accorgi che sei passato alle riflessioni di Carlo e poi ancora a quelle di Anna e così via. Non ci sono spazi a indicare le transizioni. Consiglio. Bisogna fermarsi. Appoggiare sul tavolo il libro. Dire: “Ma che cacchio”. E poi riprendere la lettura avendo capito il meccanismo. Sempre che non vi abbia innervosito, del resto non l’ha certo inventato Missiroli, lui l’ha applicato bene a una trama di storie che trovano tutte conclusione. E sono vicissitudini che toccheranno corde sensibili nei nati negli anni Settanta e Ottanta, perché di quelle generazioni parlano. Quelle, riprendendo una frase del padre di Carlo del “Non è colpa vostra se avete lavori da poco”.

Ad avere una vita da poco, lo avrete capito dalle parole del padre, quello che il cliché definirebbe “ingombrante”, è anche Carlo che trova nel tradimento le giustificazioni di tutti coloro che tradiscono – “E se tradire, per lui, fosse stato il modo per tornare a essere fedele a Margherita?” – e una coerenza con una supposta propria vera natura. I tradimenti che non hanno conseguenze sono il leitmotiv di Fedeltà e c’è da chiedersi se possano davvero definirsi tali ma in modo diverso da come li concettualizza Missiroli. Il vero pericolo per la coppia di corso Concordia è rappresentato non a caso da un desiderio non soddisfatto, che pare più una mancata corrispondenza di amorosi sensi che la voglia di lui di farsi una studentessa (“Come non sono la mia storia le mani di un insegnante che mi hanno stretto il culo” dice Sofia; bell’esempio di donna che vuole e sarà padrona della sua vita/narrazione sin dalle prime pagine del romanzo).

E tornando alla sesta protagonista, se c’è una Milano che porta le cicatrici di un cambiamento e, non solo metaforicamente, muore, c’è pure una Milano “brulicante di quartieri e ingorda di sorprese, come un giovane cui viene detto: ora vivi”. Ma nelle pagine di Missiroli, con un ruolo importante per la storia di uno dei personaggi, c’è anche l’intorno di Milano, quello che non viene più chiamato hinterland perché fa troppo anni Novanta, San Donato e i suoi spazi rurali sotto alle rampe della tangenziale. E poi ancora, più tardi, il territorio tra la provincia di Como e la Brianza a simboleggiare forse un luogo di incontro clandestino tra necessità e povertà. In “Fedeltà” Missiroli offre al lettore un biglietto di andata e ritorno alla scoperta del nostro tempo. Non fate l’errore di scendere a metà strada e guardate con attenzione il paesaggio fuori dal finestrino.

Lascia un commento

Archiviato in libri recensioni, vita quotidiana

Francesca Mannocchi, Io Khaled vendo uomini e sono innocente

Mannocchi-Khaled-Einaudi
“Io Khaled vendo uomini e sono innocente” di Francesca Mannocchi

Io Khaled vendo uomini e sono innocente di Francesca Mannocchi
Einaudi Editore, 2019, 9,99 € ebook (17 € cartaceo, 208 pagine)

«Vi aspetto tutti al varco, a chiedermi di partire, ipocriti e zozzoni. Miserabili e traditori. […] Sono loro, quelli pericolosi, come diceva il cameraman al fronte sette anni fa, i falsi amici, i mezzi nemici, la zona grigia. Ti ricordi, Murad, come parlava bene, quel cameraman?».

Speculare a “Exit West”, libro di Mohsin Hamid uscito sempre per Einaudi l’anno scorso, Io Khaled vendo uomini e sono innocente di Francesca Mannocchi dà voce non ai migranti ma a chi i migranti dietro compenso li aiuta a partire. I disperati d’Africa e d’Asia non salpano più per le coste dell’Europa per rendere nero il Vecchio continente, come auspicava il colonnello Gheddafi, ma perché se da una parte c’è una domanda (non posso più stare nel mio paese), dall’altra c’è una risposta (pagami e ti metto su un barcone per l’Italia). E il personaggio di Khaled che come prima occupazione gestisce la sicurezza dei dipendenti delle grandi società petrolifere occidentali in Libia risponde a questa domanda nel modo più professionale possibile. Meglio non far morire i propri clienti ad esempio, altrimenti, sai che pubblicità negativa?

“Continueremo a ricattare via mare, e il mare, a sua volta, ci ricatterà” afferma Khaled ricordandoci come la Libia non abbia altra risorsa che il petrolio e sia costretta a ricevere materie prime e beni di consumo dall’estero. In cambio di cosa? In cambio di trattenere entro i propri confini i migranti, o almeno, di farli partire un po’ per volta perché all’Occidente fa comodo in fondo che i barconi in mare ci siano sempre. I libici si lamentano di essere sfruttati da italiani e francesi ma rimangono seduti fuori dai bar a far scorrere la propria vita invece di cambiare lo stato delle cose, riflette il trafficante. Anche la guerra, è davvero finita con la morte di Gheddafi nel 2011? Alcuni si erano illusi di sì, prima dell’inizio dei conflitti tra le milizie, ed erano perfino andati a combatterne un’altra in Siria, ammaliati dal carisma di alcuni capi mercenari.

Il personaggio di Khaled invece ha deciso di votarsi a un traffico che al pari della guerra non si estinguerà mai – forse si affievolirà –, ma più sicuro: il traffico di esseri umani.  Khaled the smuggler, lo chiamano gli inglesi degli impianti petroliferi che protegge, tutti sanno tutto in Libia del resto perché lì “i muri hanno le orecchie”. E Mannocchi è abile a farcelo conoscere piano piano questo personaggio che ascolta i Die Antwoord, che ha fatto la guerra, che ha perso persone care, che protegge la sua famiglia di Misurata, che dà lavoro, che viene definito da uno dei suoi clienti “una brava persona”. E un po’ ti ci affezioni a Khaled fino a quando non vengono svelati nuovi particolari mentre il romanzo avanza, d’altronde, come si può rimanere brave persone a vendere uomini?

Ho citato all’inizio di questo post un altro romanzo Einaudi sul fenomeno migratorio, ricordate? “Exit West” di Mohsin Hamid. In quella storia le persone non fuggivano dai loro paesi prendendo la strada del deserto e poi il mare ma attraverso comuni porte che di punto in bianco davano accesso ad altre porte qui in Occidente. Tutti hanno un maestro e anche Khaled il mestiere se l’è fatto insegnare da uno che i barconi li faceva partire anche sotto Gheddafi, Husen. Sentite cosa afferma: “Una volta che hanno pagato e sono sopra, stop, non sono più affari nostri, sono nelle mani di Dio. Noi comandiamo sulla terra, il mare non è nostro, Khaled. Gli facciamo attraversare una porta, ma una volta che l’hanno superata, Stop”. Avete capito di quali terribili porte si tratta?

E leggendo Mannocchi mi sono venute in mente anche alcune cose che scrive Simone Perotti sul suo blog a proposito del Mediterraneo, quanto sia in potenza un elemento unificante, perché tutte le città di questo piccolo mare si guardano l’un l’altra dopotutto e allora perché non cercare una koinè che già un tempo è esistita e potrebbe tornare ancora? Forse per via della facilità con cui si fanno i soldi con i traffici illeciti laddove uno stato non esiste più come in Libia. E se anche un’autorità statale forte tornasse sotto forme più o meno democratiche, chi ci assicura che la corruzione dilagante non spingerebbe comunque i libici a ricorrere al traffico di esseri umani come un mezzo per arricchirsi in fretta? Intanto se Khaled è innocente decidetelo voi dopo aver letto il libro.

Lascia un commento

Archiviato in libri recensioni, vita quotidiana

Haruki Murakami, L’assassinio del Commendatore – Libro secondo, senza stringere rapporti con strane idee o metafore

L’assassinio del Commendatore – Libro secondo

L’assassinio del Commendatore – Libro secondo di Murakami Haruki
Traduzione di Antonietta Pastore
Einaudi, gennaio 2019, (cartaceo 20 €, 436 pagine; ebook 10,99 €)

«Ma per il momento era l’unica cosa che desiderassi. Usare semplicemente una tecnica che avevo assimilato bene, senza cercare altro».

Anche se grazie a Einaudi che mi ha inviato una copia cartacea non ho letto L’assassinio del Commendatore – Libro secondo: metafore che si trasformano in digitale posso dirvi lo stesso quanto ci ho messo a finirlo, sette ore (tre più quattro ovviamente, non potevo prendermi ferie). Tanta era la voglia di sapere come sarebbe andata a finire questa storia per poi scoprire in fondo che Murakami ce l’aveva già detto all’inizio del primo libro. Non vi rovino nulla dato che come si scioglierà la trama lo scoprirete da voi, pagina dopo pagina, rispettando i vostri tempi. Rientra tra le abilità di uno scrittore farti dimenticare quello che ha scritto nel prologo, specie se sembra (?) la descrizione di un sogno.

A ogni modo, a Murakami Haruki servivano circa ottocentosessanta pagine per raccontarci “L’assassinio del Commendatore”; per svelarci un poco alla volta il passato di Amada Tomohiko, pittore famosissimo di quadri in stile nihonga oramai in preda al decadimento mentale dell’età avanzata; per mostrarci qualche dettaglio in più del mondo elegante e ordinato del signor Menshiki; per farci affezionare alla piccola Marie con la sua fretta di diventare grande e i suoi piccoli segreti anche se “è una bambina molto corretta” come ci tiene a precisare sua zia Shōko e come apprenderemo anche noi lettori con l’avanzare della trama.

Caduti nella tana del Bianconiglio che Murakami Haruki ha scavato per noi in questo romanzo, del resto – o nella buca in mezzo al bosco per essere più precisi –, altro non rimane che inoltrarci nel cunicolo tenebroso che ci si spalanca davanti pregando che abbia una via d’uscita. Senza orologi che ci possano indicare di preciso lo scorrere del tempo. E tutto il libro secondo si configura in parte come una riflessione sul tempo a nostra disposizione e sul viaggio rappresentato dall’esistenza, forse non a caso il protagonista ha quasi la stessa età di Dante. “‘Lei ha trentasei anni, vero?’ mi chiese di punto in bianco [Menshiki]. ‘Sì’ [risposi]. ‘Sono probabilmente gli anni più belli della vita’”.

Davvero difficile stabilire se la chiusura del cerchio de “L’Assassinio del Commendatore” sia una pennellata che piacerà a tutti (lo scrivevo anche nel mio commento al primo volume), Murakami Haruki ci mette del suo per destabilizzare il lettore, penso in particolare a un sogno del protagonista che ha un’importanza capitale nell’economia della storia. Rimane molto in sospeso alla fine della storia? Poco? Personaggi come quello di Menshiki avrebbero tollerato uno sviluppo diverso della vicenda? Un altro modo di interpretare “L’Assassinio del Commendatore” è quello di concepirlo come una riflessione sulle scelte che ciascuno di noi fa durante la sua vita.

Non sono infatti forse scelte anche quelle decisioni che non abbiamo preso? È corretto custodire un segreto per tutta la vita? Quanto ci toccano i lutti (come dice in due occasioni il personaggio di Masahiko: “La morte di una persona non è una faccenda da poco”) che inevitabilmente subiremo col passare del tempo? Dobbiamo raccogliere l’eredità dei nostri genitori o lasciarla perdere? A Murakami Haruki – arrivato proprio in coincidenza dell’uscita di questo libro all’età di settant’anni – non importa tanto darci risposte ma portarci sul fondo di una buca dalle pareti di carta dove farci riflettere sullo scorrere dei giorni.

2 commenti

Archiviato in ebook recensioni

Ester Viola, Gli spaiati, inizio a pensare che per alcuni sia una scelta

Gli spaiati di Ester Viola

Gli spaiati di Ester Viola
Einaudi Editore, 2018, 8,99 € ebook (17 € cartaceo)

«”Diteci che io non sono fessa, la vedo. Fa la scema pure col vicino vostro, l’ingegnere. Quello che vi dovevate sposare voi, se tenevate ‘a capa ‘n capa”».

Qualcosa non mi tornava girata l’ultima pagina di L’amore è eterno finché non risponde – titolo d’esordio per Einaudi di Ester Viola nel 2016e sono contento, ora che ho finito il seguito, “Gli spaiati” appunto, di aver capito per quale motivo. Ritroviamo l’avvocato Olivia Marni, personaggio cui con tutta probabilità vi affezionerete se già non l’avevate adottato nel primo libro, incredibilmente imbrogliata in una relazione funzionale. Trasferitasi da Napoli a Milano per seguire il suo capo Luca fresco di separazione dalla moglie Carla, Olivia ci fa partecipe delle sue riflessioni su cosa significhi essere in coppia con qualcuno che un rapporto lo sa condurre. Ma è questo che la nostra quarantenne vuole? Non è che una volta raggiunto l’obbiettivo di essere felici in due non ci si possa rendere di colpo conto che non faccia per noi? Non è che esistono gli spaiati per natura?

Cosa mi è piaciuto de “Gli spaiati”: Milano. Se nel primo libro una delle protagoniste era la città di Napoli (immancabile anche ne “Gli spaiati” dove compare come attrice non protagonista), la Milano della borghesia meneghina, quella che può permettersi le case e i vestiti che compaiono negli inserti settimanali del Corriere della Sera, è comprimaria a tutti gli effetti. Forse perché palcoscenico più adatto – “Milano non si intromette” – del capoluogo partenopeo della nuova vita di Luca e Olivia. Un’esistenza tranquilla da coppia in carriera dove lui può continuare a essere il papà dei due figli nell’appartamento accanto e lei chiedersi quanto gli stia bene un uomo che non le dà alcun motivo di dubitare del suo sentimento. Tutto bene? Non proprio visto che stare insieme a Luca significa aver perso Viola (primo amore di lui), la migliore amica e la confidente più cara dell’ex-spaiata.

E quindi siamo di fronte a problemi da primo mondo? Beh, sì, non si capiva dal titolo? O per meglio dire, siamo in un mondo alternativo dove tutti noi siamo scritti da Nora Ephron, non certo per caso evocata con nome e cognome a un certo punto de “Gli spaiati”. La sospensione dell’incredulità è obbligatoria perché l’assunto da cui parte Ester Viola è l’estrema attenzione che tutti i personaggi nutrono nei confronti degli altri. Olivia è ipersensibile a ogni minimo segnale che le viene lanciato, anche in modo inconsapevole, dalle persone che la circondano. E questo è applicabile a tutti gli uomini e le donne che incontreremo lungo il libro, esperti sopraffini dell’interpretazione del comportamento umano. Eppure, l’esperienza ci dice che l’indifferenza è il primo abito mentale che, almeno nell’Italia settentrionale, ti abitui presto a indossare.

Cosa non mi è piaciuto: aver capito molto presto le mire di uno dei personaggi (ma vallo a sapere, magari Ester Viola l’ha fatto a bella posta) fondamentale per la risoluzione della trama. D’altro canto, però, sarò troppo ingenuovedi a questo proposito la mia irritazione su come era finito il primo libro –, non mi aspettavo per niente il finale de “Gli spaiati” che mi auguro possa rimanere parte di un dittico perfetto. Non ce la vedo Olivia Marni protagonista di un terzo capitolo conclusivo, perché non c’è portata l’avvocato alle conclusioni. Le sciagure sentimentali non le prevedono perché hanno insito il preludio di una nuova e quindi, a rigor di logica, le loro non si possono definire conclusioni autentiche. Nemmeno l’incedere dell’età può confortare, chi è spaiato è spaiato anche quando uno si aspetterebbe di aver raggiunto per esperienza una certa maturità amorosa.

Potrebbe sembrare che stia augurando a Ester Viola di smettere di scrivere. Non è così. Quel che auspico è che possa, vista la sua facilità di scrittura, abbandonare il personaggio di Olivia Marni per raccontarci altre storie. E forse ha già iniziato a pensarci, perché “Gli spaiati”, a mio avviso, narra una complicata storia d’amore che rimane sempre dietro le quintenascosta e ciò nonostante alla portata di tutti, come un faldone del labirintico tribunale di Napoli – e che non è riconducibile alla voce narrante di questo libro. Posso aver sbagliato in pieno la mia interpretazione del testo ma più volte mi è capitato di pensare: i veri protagonisti chi sono? P.S. Anche se aiuta a comprendere meglio i rovelli di Olivia, non è necessario leggere prima di questo libro “L’amore è eterno finché non risponde”. P.S.S. Viola ci dice che un ex-spaiato è uno spaiato che ha smesso… ma che rimane sempre tale proprio perché “vuole essere felice a tutti i costi con qualcuno”.

Lascia un commento

Archiviato in libri recensioni, vita quotidiana

Paolo Cognetti, Senza mai arrivare in cima, ma cosa ci faccio qui?

Senza mai arrivare in cima di Paolo Cognetti

Senza mai arrivare in cima: viaggio in Himalaya di Paolo Cognetti
Einaudi Editore, 2018, 7,99 € ebook (14 € cartaceo, 120 pagine)

«Gli occhi invece stavano bene. Bagnandoli pensai: fa’ che io sappia guardare e fa’ che trovi le parole per raccontare ciò che ho visto».

Questo è il fine settimana ideale per leggere Senza mai arrivare in cima di Paolo Cognetti. Specie se si fa coincidere il tempo della lettura con il periodo raccontato dallo scrittore, questo libricino per me, lo avrete capito, è autunnale. Cognetti racconta di un suo viaggio in Nepal svoltosi esattamente nell’ottobre 2017 nella zona del Dolpo, una parte della nazione nepalese dove ha trovato rifugio una parte dei tibetani fuggiti dal loro paese dopo l’annessione cinese. Immaginate un lembo dell’altipiano tibetano abitato da meno di ventimila persone e avrete subito sotto gli occhi le terre alte raccontate nel libro, un deserto d’alta quota dove il legno deve essere importato e l’economia è principalmente di sussistenza, tutt’intorno, però, le magnifiche vette dell’Himalaya.

A proposito, in caso non vi bastassero le parole di Cognetti, potete ripercorrere in video il suo viaggio nel Dolpo di tre settimane diviso in puntate su Montagne.tv (basta cliccare qui) o in foto sul numero 90 di Meridiani Montagne. Rimaniamo però al libro pubblicato da Einaudi, di cui auspichiamo un’edizione economica speciale, che si possa arrotolare come il taccuino dove Paolo ha preso i suoi appunti mentre percorreva quelle mulattiere. Siamo dalle parti del resoconto di viaggio sulle tracce di altri viaggi, in particolare la guida letteraria scelta da Cognetti è “Il leopardo delle nevi” di Peter Matthiessen uscito nel 1978, lo stesso anno di nascita del nostro premio Strega. È curioso come il quarantesimo anno si stagli all’orizzonte per lo scrittore come il limite della gioventù.

“Ecco il viaggio che desideravo per i miei quarant’anni, adatto a celebrare l’addio a quell’altro regno perduto che è la giovinezza”. Davvero, ognuno di noi sente di essere diventato adulto alle età più diverse.  E se l’Himalaya fa un dono a Cognetti è proprio quello di fargli assaggiare cosa significhi invecchiare. “Chinarsi, aprire la tenda, entrarci, trascinare dentro lo zaino, bastava questo a farmi sentire l’affanno […]. Sarà così che ci si sente da vecchi?, pensavo. Costretti a economizzare ogni gesto, in un corpo a cui anche il semplice stare al mondo costa fatica?”. Le altezze non fanno paura allo scrittore eppure il suo corpo, non abituato fin dalla nascita ai quattromila metri come quello della popolazione locale (e che belle le descrizioni dedicate al passo leggero delle guide) lo mette alla prova più volte durante il viaggio.

Se nell’autunno del 1973 Matthiessen per esplorare il Dolpo si era lasciato dietro un figlio di otto anni, affidato a parenti perché l’anno prima era rimasto vedovo della seconda moglie, Cognetti in Italia lascia invece il fido Lucky per incontrare in Nepal una cagna randagia di due/tre anni, Kanjiroba, nata forse in concomitanza con la dipartita di Matthiessen per l’altro mondo nel 2014. Solo una coincidenza? Suggestioni che Cognetti dissemina lungo il cammino, dove la ricerca di una montagna incontaminata si scontra con testimonianze del passato remoto e prossimo del Nepal – templi in rovina e tracce sbiadite della guerriglia maoista a cavallo del cambio di secolo –  e con il presente di un “piccolo paese stritolato tra l’India e la Cina, sempre più ridotto a periferia di altri”.

Ho acquistato in formato cartaceo “Senza mai arrivare in cima” perché sfogliandolo in libreria ho visto che conteneva anche i disegni di Paolo che spesso si intrecciano con i suoi appunti. Contenendo a un certo punto la fatidica domanda “Ma cosa ci faccio qui?” il libretto appartiene alla categoria dei racconti di viaggio esistenziali (ma quale viaggio non lo è?) e non ho dubbi che tra dieci, venti, trent’anni, quando Cognetti sentirà di nuovo il richiamo del Monte di Cristallo da cui si vede il Monte Kailash, potrò leggere un seguito di questo libro. E a maggior ragione ne sono convinto perché se arriverete in fondo a “Senza mai arrivare in cima” scoprirete, come ho fatto io, i tre desideri che il nostro scrittore si regala per i suoi quarant’anni, che fanno intravedere molte altre pagine nel suo futuro.

Lascia un commento

Archiviato in ebook recensioni, vita quotidiana

Alessandro Baricco, The Game, come una sorta di vibrazione

The Game di Alessandro Baricco

The Game di Alessandro Baricco
Einaudi Editore, ottobre 2018, 330 pagine, (18 € cartaceo; 9,99 € ebook)

«Sappiamo con certezza che ci orienteremo con mappe che ancora non esistono, avremo un’idea di bellezza che non sappiamo prevedere, e chiameremo verità una rete di figure che in passato avremmo denunciato come menzogne».

Se il nuovo libro di Baricco The Game ha un torto è quello di avere lo stesso titolo di un film di Fincher del 1997 con Michael Douglas, preistoria, un film di più di vent’anni fa che mi ricorda di essere sulla soglia dei quaranta. Aneddoti personali a parte, “The Game” – come avrebbero detto nel Novecento – è un utile vademecum per capire come siamo arrivati fin qui. Ovvero, come siamo passati dal mondo dei telefoni fissi della fine degli anni Novanta a quello di oggi, dove ci potrebbe capitare di spiegare ai nostri figli che “cos’è” un telefono fisso. Baricco si prende questa briga, del resto il saggio che avete per le mani è il risultato di mesi e anni di ricerche che poi sintetizzati sono stati distillati in poco più di trecento pagine (sempre che non lo stiate leggendo su un e-reader e allora in ore non so dirvi quanto ci vuole per finirlo).

A seconda di quando siete nati, e di quanto siete impallinati con la tecnologia, troverete “The Game” più o meno interessante. Poteva essere il canovaccio di uno spettacolo teatrale – forse non a caso è stato presentato al Parenti di Milano a metà ottobre –, Baricco ha deciso di cristallizzare la sua riflessione sui tempi odierni in un libro, ideale seguito de “I barbari”* che tanto fece discutere nel 2006. L’ha fatto per rompere le scatole ovviamente a quell’élite intellettuale che lo tiene ai margini da quando ha avuto l’ardire di avere successo, come spiega bene Davide Rossi su Link in Apologia di Baricco, e un po’ per chiarirsi le idee lui per primo su cosa diavolo sia successo negli ultimi quarant’anni. Ci siamo avvitati in un processo di perdita dell’aura dell’intera realtà o c’è in giro una nuova vibrazione di cui dobbiamo prendere coscienza? Non facciamo tutti parte di un gioco inventato in California che ha mappato tutta la realtà e ce l’ha restituita elaborata? Allora giochiamo.

Come tutte le semplificazioni a scopo divulgativo “The Game” salta dei passaggi. Fa un po’ sorridere la sequenza utilizzata da Baricco: primi videogiochi (Pong ecc.) -> videogiochi da bar -> PlayStation… se siete cresciuti con il Nintendo e il Sega Master System. Fa un po’ strano, alla fine dei paragrafi dedicati al nuovo modo di concepire l’esperienza, non trovare uno straccio, uno, di riferimento ai punti esperienza di Dungeons & Dragons (del resto i giochi di ruolo non sono stati considerati da Baricco eppure tanto spiegherebbero del modo attuale di intendere l’apprendimento). Però, d’accordo, glieli si perdona. L’altro aspetto che lascia perplessi è il riferimento dell’autore al “vecchio Steve Jobs” (p. 130) quando si fa caso all’anno di nascita del fondatore della Apple, il 1955, paragonandolo a quello di Baricco, il 1958. Parole d’affetto? Oppure non si sente vecchio quanto lui?

Superate le prime due parti del saggio – L’epoca classica (1981-1998) e La colonizzazione (1999-2007) – arriverete a quella più intrigante, The Game (2008-2016) in cui Baricco si spinge praticamente ai nostri giorni analizzando anche il Movimento 5 Stelle (“È come se fossero digitali senza esserlo”) e smontando molto del senso comune che la gente (sì, parlo dell’uomo della strada e anche del sottoscritto a volte), mette in campo senza timore del ridicolo quando parla dei pericoli della Rete: “Il fatto che la Rete bene o male ti faccia arrivare solo le notizie che vuoi leggere, […] è un[a] cosa che può davvero temere gente che ha conosciuto le parrocchie, le sezioni di partito, il Rotary, il telegiornale di quando non c’era la Rete e i giornali degli anni ’60?”.

Bella domanda, no? Ancora meglio la definizione che viene subito dopo: “Il Game c’è, funziona, ma a giocarlo è gente che inizia ad odiarlo. Tecnicamente allineata, e mentalmente dissidente”. Ora, avrete capito che “The Game”, pur non nascondendone le storture, propone una visione ottimistica del futuro, esplicitata a chiare lettere nelle riflessioni dedicate alla verità e all’arte e alle 25 tesi finali (tra le quali: “È l’umanesimo che deve colmare un ritardo e raggiungere il Game”; Baricco non è il primo a dirlo ma sarebbe bello vedere questo proposito realizzato). Abbiamo inserito la monetina molto tempo fa e per dirla alla Pascal molto meglio giocare che non giocare.

* È Baricco stesso a dichiararlo a pagina 204: “Neanche ci provo a spiegarvi cosa esattamente significa [l’espressione Intelligenza Artificiale, ndr], ci penserò tra dieci anni quando scriverò la terza puntata della saga dei Barbari”.

Lascia un commento

Archiviato in libri recensioni, vita quotidiana