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Haruki Murakami e Ozawa Seiji, Assolutamente musica, è dunque così che si crea una musica splendida?

Assolutamente musica di Murakami Haruki e Ozawa Seiji

Assolutamente musica di Murakami Haruki e Ozawa Seiji

Assolutamente musica di Murakami Haruki e Ozawa Seiji
Traduzione di Antonietta Pastore
Einaudi, ottobre 2019, (cartaceo 19,50 €, 308 pagine; ebook 9,99 €)

«Murakami: “Più l’ascolto, [Ozawa], più mi rendo conto di quanto sia difficile dirigere un’orchestra! Mi sembra molto più facile scrivere un romanzo, senza nessuno intorno (rido)”».

Un anno fa, grazie a Einaudi che mi ha inviato una copia omaggio, ho letto Assolutamente musica, edizione italiana di una raccolta di conversazioni pubblicata nel 2011 in Giappone fra lo scrittore Murakami Haruki e il direttore d’orchestra Ozawa Seiji. Sei “sbobinature” di incontri avvenuti in tempi e luoghi diversi, intervallati da quattro interludi e una descrizione della cittadina svizzera di Rolle*, più una introduzione di Murakami e una postfazione di Ozawa. Si tratta di un libro che immagino possa essere compreso appieno, e apprezzato oppure no, dai cultori di musica classica ma da ascoltatore occasionale – fingendo modestia lo stesso Murakami scrive nelle prime pagine: “Sono davvero un dilettante” – mi è piaciuto molto.

Un secondo livello di lettura, oltre a quello scontato dello “scrittore che intervista direttore d’orchestra”, è rappresentato in “Assolutamente musica” dalla riflessione sulla creazione artistica, meglio ancora sull’esecuzione della creazione artistica. Un direttore d’orchestra ha come scopo quello di coordinare al meglio un insieme di professionisti per ricreare la musica scritta su uno spartito da un compositore. Allo stesso modo uno scrittore deve avere ben chiaro in testa cosa fare. Scrive Murakami: “Naturalmente [per scrivere un romanzo] è necessario saper scrivere, ma prima ancora bisogna pensare: «Voglio raccontare a tutti i costi questa cosa qui», averne il forte desiderio […] per trasmetterla così com’è al pubblico” .

Dice a un certo punto Ozawa a Murakami: “Sa, a forza di parlare di musica, sono arrivato a pensare che non la concepisco come lei. Quando studio un’opera mi concentro sullo spartito…” E Murakami: “[Ovvero], lei non cerca il significato dell’opera… l’accoglie per quel che è”. In questo scambio di battute spero di chiarire quanto espresso sopra. Un direttore d’orchestra, almeno nel modo in cui lo intende Ozawa, è sì un artista ma in modo differente dallo scrittore, così come del resto riconosce lo stesso Murakami: “La natura delle nostre attività è diversa, ma immagino che il nostro livello di attenzione sia identico”. L’oscillazione tra quanto c’è di simile e di dissimile tra dirigere un’orchestra e scrivere un romanzo fa da contrappunto a tutto il libro.

Ho trovato molto utile, e lo consiglio vivamente a tutti coloro che si cimenteranno nella lettura di “Assolutamente musica”, di recuperare su YouTube, o altrove, le sinfonie di cui parlano Murakami e Ozawa. Specie in passaggi come questo, in cui si discute di Mahler. «Murakami: “Ho sempre trovato quest’improvviso cambio d’atmosfera… come dire? Inedito… originale”. Ozawa: “Ha ragione. Questa melodia ebraica che salta fuori subito dopo una marcia funebre. È un’associazione un po’ pazza”» (youtu.be/0QRAS4PnwhE). Vi assicuro che recuperando il brano capirete ancor di più quel che intendono i due amici. Niente di meglio che sperimentare una vera e propria lettura “aumentata”.

Consigliato a chi compra tutto ma proprio tutto di Murakami? Certo che sì ma adatto anche a chi vuol conoscere il dietro le quinte di mezzo secolo di musica classica ai suoi livelli più alti grazie agli aneddoti di Ozawa. Come scrive il Maestro: “avevo troppo lavoro per pensare al passato, ma ora i ricordi tornavano, uno dopo l’altro, in un’ondata di nostalgia. Un’esperienza nuova, per me”. Aspettatevi dunque una conversazione pacata tra un settantacinquenne e un sessantenne; ha probabilmente ragione Murakami Haruki quando scrive che forse un titolo più indicato per questo libro sarebbe stato I miei pomeriggi con Ozawa Seiji. E grazie a lui ci siamo anche noi.

* A Rolle Ozawa Seiji ha fondato la Seiji Ozawa International Academy Switzerland in cui ogni estate “musicisti di talento, tra i venti e i trent’anni, accorrono da tutta Europa per riunirsi in una specie di ritiro e ricevere una formazione”.

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Haruki Murakami, L’assassinio del Commendatore – Libro secondo, senza stringere rapporti con strane idee o metafore

L’assassinio del Commendatore – Libro secondo

L’assassinio del Commendatore – Libro secondo di Murakami Haruki
Traduzione di Antonietta Pastore
Einaudi, gennaio 2019, (cartaceo 20 €, 436 pagine; ebook 10,99 €)

«Ma per il momento era l’unica cosa che desiderassi. Usare semplicemente una tecnica che avevo assimilato bene, senza cercare altro».

Anche se grazie a Einaudi che mi ha inviato una copia cartacea non ho letto L’assassinio del Commendatore – Libro secondo: metafore che si trasformano in digitale posso dirvi lo stesso quanto ci ho messo a finirlo, sette ore (tre più quattro ovviamente, non potevo prendermi ferie). Tanta era la voglia di sapere come sarebbe andata a finire questa storia per poi scoprire in fondo che Murakami ce l’aveva già detto all’inizio del primo libro. Non vi rovino nulla dato che come si scioglierà la trama lo scoprirete da voi, pagina dopo pagina, rispettando i vostri tempi. Rientra tra le abilità di uno scrittore farti dimenticare quello che ha scritto nel prologo, specie se sembra (?) la descrizione di un sogno.

A ogni modo, a Murakami Haruki servivano circa ottocentosessanta pagine per raccontarci “L’assassinio del Commendatore”; per svelarci un poco alla volta il passato di Amada Tomohiko, pittore famosissimo di quadri in stile nihonga oramai in preda al decadimento mentale dell’età avanzata; per mostrarci qualche dettaglio in più del mondo elegante e ordinato del signor Menshiki; per farci affezionare alla piccola Marie con la sua fretta di diventare grande e i suoi piccoli segreti anche se “è una bambina molto corretta” come ci tiene a precisare sua zia Shōko e come apprenderemo anche noi lettori con l’avanzare della trama.

Caduti nella tana del Bianconiglio che Murakami Haruki ha scavato per noi in questo romanzo, del resto – o nella buca in mezzo al bosco per essere più precisi –, altro non rimane che inoltrarci nel cunicolo tenebroso che ci si spalanca davanti pregando che abbia una via d’uscita. Senza orologi che ci possano indicare di preciso lo scorrere del tempo. E tutto il libro secondo si configura in parte come una riflessione sul tempo a nostra disposizione e sul viaggio rappresentato dall’esistenza, forse non a caso il protagonista ha quasi la stessa età di Dante. “‘Lei ha trentasei anni, vero?’ mi chiese di punto in bianco [Menshiki]. ‘Sì’ [risposi]. ‘Sono probabilmente gli anni più belli della vita’”.

Davvero difficile stabilire se la chiusura del cerchio de “L’Assassinio del Commendatore” sia una pennellata che piacerà a tutti (lo scrivevo anche nel mio commento al primo volume), Murakami Haruki ci mette del suo per destabilizzare il lettore, penso in particolare a un sogno del protagonista che ha un’importanza capitale nell’economia della storia. Rimane molto in sospeso alla fine della storia? Poco? Personaggi come quello di Menshiki avrebbero tollerato uno sviluppo diverso della vicenda? Un altro modo di interpretare “L’Assassinio del Commendatore” è quello di concepirlo come una riflessione sulle scelte che ciascuno di noi fa durante la sua vita.

Non sono infatti forse scelte anche quelle decisioni che non abbiamo preso? È corretto custodire un segreto per tutta la vita? Quanto ci toccano i lutti (come dice in due occasioni il personaggio di Masahiko: “La morte di una persona non è una faccenda da poco”) che inevitabilmente subiremo col passare del tempo? Dobbiamo raccogliere l’eredità dei nostri genitori o lasciarla perdere? A Murakami Haruki – arrivato proprio in coincidenza dell’uscita di questo libro all’età di settant’anni – non importa tanto darci risposte ma portarci sul fondo di una buca dalle pareti di carta dove farci riflettere sullo scorrere dei giorni.

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Haruki Murakami, L’assassinio del Commendatore – Libro primo, forse il tempo è dalla sua parte

L’assassinio del Commendatore – Libro primo di Murakami Haruki

L’assassinio del Commendatore – Libro primo di Murakami Haruki
Traduzione di Antonietta Pastore
Einaudi, ottobre 2018, (cartaceo 20 €, 424 pagine; ebook 10,99 €)

«Sono davvero desolata, ma non credo di poter continuare a vivere con te, – mi disse mia moglie con tono pacato. Poi rimase a lungo in silenzio».

Non so dove andrà a parare Murakami Haruki con L’assassinio del Commendatore – Libro primo: idee che affiorano questa volta, so che le prime cento pagine si voltano da sole. Insieme alla copia omaggio che mi ha inviato Einaudi settimana scorsa c’era un tubetto di colore bianco, indizio misterioso come misteriosa è la storia raccontata dal narratore di questo romanzo. Un pittore. Un artista di talento, sebbene non di un talento eccezionale (almeno, questo è quello che afferma più e più volte lui), che, per una serie di coincidenze, si ritrova ad abitare nella casa di un pittore che celebre è stato davvero, prima di cedere all’avanzare dell’età: Amada Tomohiko.

E la prima investigazione che Murakami Haruki abilmente mette in scena è proprio artistica. Per quale motivo a un certo punto della sua vita Amada Tomohiko aveva modificato il suo stile sposando la corrente nihonga che dà al vuoto la stessa importanza della figura? Allo stesso modo le prime pagine de “L’assassinio del Commendatore” sembrano una riflessione a posteriori sul senso del proprio lavoro: “A volte mi sentivo come una escort di lusso che lavora nel mondo della pittura. Dovevo svolgere un determinato compito, senza sbavature, con padronanza delle tecniche e tutto lo scrupolo possibile. […]. Desiderio e piacere, da parte mia, zero”.

Abbiamo senza dubbio fra le mani un’avvincente storia del mistero, dove non mancano quei micro-scivolamenti verso quella “realtà altra” cui Murakami Haruki ci ha abituato, dove i sogni devono essere presi molto sul serio. Ad esempio, per la moglie del protagonista “i sogni avevano un grande significato. Spesso determinavano le sue decisioni o influenzavano le sue opinioni”. Vi lascio scoprire quanto quest’affermazione si faccia concreta in “L’assassinio del Commendatore” insieme al suggerimento, almeno per quel che riguarda le prime sessanta pagine, di avere sottomano Google Maps perché l’autore si diverte a farci conoscere un po’ di Giappone mettendoci nella macchina dell’inizialmente spaesato protagonista.

Chissà se i fan di Murakami Haruki si riconoscono nel termine collettivo “harukisti” – non posso dichiararmi tale perché di suo ho letto solo “Norwegian Wood. Tokyo blues” e “19Q4” – ma basta l’attacco di “L’Assassinio del Commendatore” per decidere subito, in caso non l’abbiate mai letto, se essere dalla sua parte o meno: “Oggi, svegliandomi da un breve sonno pomeridiano, davanti a me ho trovato l’uomo senza volto”. Vale a dire, non ci sono tentennamenti di fronte al fatto che lo scrittore giapponese sia un fuoriclasse della scrittura cui oggi resta solo il cruccio di come stupire i suoi lettori. È altrettanto del tutto naturale che il mondo di Murakami Haruki possa non andare a genio a tutti.

Murakami Haruki ha comunque il pregio di giocare (in apparenza?) a carte scoperte col lettore. Non troverete Internet se non accennata; non esiste d’altra parte interesse per la quotidianità per il protagonista, che in più di un’occasione tiene a precisare come per lui abbia poco significato. Sarete portati insomma in una stanza, la vostra, dove sarete circondati da libri e vinili, il massimo della tecnologia che Murakami Haruki vi mette a disposizione. Tra il mondo e ciò che accade esiste la mediazione del corpo, che però di per se stesso non può portarvi a capire nulla, e della mente. Ipotizzo che sia per questo motivo che il libro abbia come sottotitolo “idee che affiorano”. Adesso mi scuserete, è tempo di tornare nella mia stanza a leggere “L’assassinio del Commendatore”.

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