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Patricia Lockwood, Nessuno ne parla, poco a poco il mondo la richiamò a sé

Nessuno ne parla di Patricia Lockwood
Nessuno ne parla di Patricia Lockwood

Nessuno ne parla di Patricia Lockwood
Traduzione di Manuela Faimali
Mondadori, aprile 2022, (cartaceo 18,50 €, 168 pagine; ebook 9,99 €)

«”Probabilmente andrò a casa quando avrò finito la magnum di vodka” si disse, come una Cenerentola al contrario, continuando a infilarsi nel bicchiere che le calzava alla perfezione».

In uno scambio su Twitter qualche settimana fa mi sono accorto di quanto poco si parlasse di “Nessuno ne parla” di Patricia Lockwood, probabilmente perché il suo personaggio in Italia ha meno seguito che negli Stati Uniti (più di 110.000 follower su Twitter, per darvi un’idea). Qualche giorno dopo Mondadori mi ha inviato una copia del libro perché ero e sono convinto davvero che bisognerebbe dargli più visibilità. Lockwood del resto non è nuova al lettore italiano, che ha già potuto leggere il suo memoir “Priestdaddy. Mio papà, il sacerdote” nel 2020. E se già essere figlia di un prete cattolico è una storia che merita di essere raccontata di per sé ciò è ancora più vero per quella narrata in questo romanzo.

Diciamo che vi ho convinto e avete acquistato o preso in biblioteca “Nessuno ne parla”. Dopo poche pagine vorreste scrivermi un’email chiedendomi cosa l’avete preso a fare perché “non si capisce niente”. Ecco, il libro di Patricia Lockwood merita di fare un po’ di fatica in più. Di immaginare, come ha fatto lei, il modo migliore per rendere sulla pagina lo scorrere infinito dei post sui social network, e non solo. Anche la nostra reazione a essi. Nel romanzo la figura del marito è spesso utilizzata come controcanto alla assuefazione a Internet della protagonista. Siamo sicuri sia davvero necessario apprendere in presa diretta ogni minima tragedia del mondo? “Ovvio che stava piangendo. Perché lui non stata piangendo?”.

Diviso in due parti, “Nessuno ne parla” affronta esattamente questo tema. Il nostro presente, che anche se in modo differente per fasce generazionali, caratterizzato dalla simultaneità informativa del nostro essere connessi con, potenzialmente, ogni altro essere umano del pianeta, e il nostro privato, che possiamo decidere o meno se gestire secondo le regole del mondo nuovo (“[…] alla fine non aveva idea di dove finisse lei e dove iniziasse il resto della gente”), oppure no. Tenerci per noi. Perché non sempre la vita è una successione di meme divertenti da condividere, a volte, perché non dire sempre?, sono anche fatti terribili che vuoi/puoi vivere solo con la tua famiglia o comunque con le persone a te più vicine.

Fate allora questo sforzo, superate la prima parte, ricordo a tutti che Lockwood è una poetessa e onore alla traduttrice Manuela Faimali di aver reso comprensibile una successione di frasi che altro non è che un flusso di coscienza (con tanto di omaggio a Joyce: “Quando varcò i cancelli di Saint Stephen’s Green, il nuovo libro, il flusso di coscienza collettivo, iniziò a scorrere verso il busto rigido di Joyce”) la seconda parte è tutta un’altra storia, infatti. Se la notizia della gravidanza della sorella della protagonista era stata solo una notizia tra le tante tra quelle affiorate tra le onde del portale, vale a dire Internet, una diagnosi medica linfausta a rende così speciale da, incredibilmente, strapparla da una vita in funzione di essa.

Perché il tempo che possiamo dedicare alle persone, il tempo intimo dello “stare vicino” non in senso lato ma fisico è ancora in gran parte fuori dalla Rete. Non è stato digitalizzato come tante altre cose, anche se può sembrarlo, a volte. Se devo aiutare concretamente un parente, o in generale il mio prossimo, ciò è possibile perlopiù staccando da Internet. O per meglio dire, solo in una modalità di comunicazione con l’altro totale, c’è chi ci riesce anche a distanza, si può essere partecipi della sofferenza dell’altro. E piangerete anche voi come ho fatto io per la piccola Lena, per la volontà di vita di una piccola bambina rimasta su questa terra giusto il tempo di provare a comunicare e di farsi amare.

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Daniele Rielli, Odio, una vita morale era impossibile

Odio di Daniele Rielli

Odio di Daniele Rielli
Mondadori 2020, 528 pagine; 20 €; ebook 10,99 €

«Nella sequenza finale […], io giocavo sul tappeto con il nuovo modellino  […]. Mio padre con un toscano in bocca faceva scattare l’accendino, lo spegneva e lo riaccendeva. Lo spegneva e lo riaccendeva».

Non so se “Lascia stare la gallina” (2015) di Daniele Rielli sia un libro di culto, non l’avevo mai sentito nominare, l’ho recuperato a metà prezzo via Libraccio dopo aver letto “Odio” uscito per Mondadori quest’anno (ho deciso di comprarlo grazie all’intervista all’autore di Gabriele Ferraresi su Esquire). Ricordavo il clamore suscitato da “Quitaly” (2014), quando Rielli pubblicava sotto lo pseudonimo di Quit the Doner. Anche il protagonista di “Odio”, Marco De Sanctis, inizia a farsi conoscere come blogger dopo essere uscito innocente da una vicenda giudiziaria da giovane. L’abilità retorica di De Sanctis – impegnato come organizzatore di eventi a Bologna ma destinato allo stato di mera sussistenza peculiare dei trentenni di oggi – gli fa fare il salto di qualità quando viene notato dal Maestro.

Il Maestro, angel investor impegnato a dare una mano al governo Renzi nella digitalizzazione del Paese, assume De Sanctis (DeSa) come ghost writer per gli articoli a sua firma sui giornali. Questo dà modo alla voce narrante del romanzo, il sopracitato DeSa, di conoscere sia il mondo dei salotti romani sia la galassia di start-up che orbita su Milano. L’ulteriore svolta per De Sanctis – quella da comprimario ad apparente protagonista di “Odio” – è riassumibile in questo passaggio: “[Decisi che] Io sarei diventato un mercante di dati, avrei venduto agli inserzionisti l’attenzione delle persone, attenzione già guadagnata da altri”. Nota: è a questo punto che la vicenda, raccontata a posteriori, inizia a saldarsi al tempo presente.

Romanzo realistico per l’80% è un peccato “Odio” si fermi sul più bello, quando Rielli tira le fila della sua rielaborazione degli anni zero e dieci del XXI secolo facendoci solo assaggiare lo sviluppo della storia. Curioso come, se ci fosse anche la casa di un pittore nella valle trentina dove si ritira il protagonista, DeSa potrebbe ricordare il Menshiki del Murakami de “L’assassino del commendatore”, sebbene il personaggio di gran lunga più interessante di “Odio”, almeno per me, rimarrà per sempre (o Rielli ci regalerà un seguito?) il Maestro, se ispirato a qualche persona reale non voglio nemmeno saperlo, non è importante, che se la gioca con Moriarty di Conan Doyle in quanto a carisma e obiettivi.

Viceversa, a meno che non siate fan del Piccolo de “La separazione del maschio”, il personaggio più debole di “Odio” mi pare essere proprio Marco De Sanctis, cui c’è da credere che nel momento in cui non potrà più essere in grado di possedere una donna – come racconta in un famoso aneddoto Freud a proposito dei bosniaci: “Tu lo sai, Herr, quando non si può più far quello, la vita non ha valore” – perderà la voglia di vivere. Se infatti il lettore maschio bianco etero tipo sulla soglia dei quaranta può immedesimarsi in De Sanctis senza troppa fatica fin dalle prime pagine, il rischio che diventi alla lunga stucchevole l’elenco delle conquiste alla “Madamina, il catalogo è questo…” non è da escludere.

In cento parole: “Odio” è un riassunto sapiente degli ultimi quindici anni del nostro Paese e ha il merito di spiegare dall’interno, oltre a quello che più volte è stato già raccontato (l’ambiente dell’accademia, della politica, della carta stampata ecc.), modi di fare imprenditoria che perlopiù rimangono fuori dalla narrazione in Italia, esclusi casi eclatanti (ad esempio, chi avrebbe mai appreso di Bending Spoons se non fosse stato per l’app Immuni?) o che pochi altri hanno descritto finora, penso a Le vite potenziali di Francesco Targhetta. E adesso tocca leggere “Lascia stare la gallina” e aspettare il prossimo di Rielli.

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