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Westworld 2016, una serie TV su come raccontiamo le storie e sulla coscienza di sé

Robert Ford (Anthony Hopkins) - Westworld 2016

Robert Ford (Anthony Hopkins) – Westworld 2016

Vedere Westworld o non vederla, siete indecisi. Un’altra serie TV spacciata come sensazionale o una “storia coi robot” di cui potete fare a meno? Non vorrei avervi spaventato col titolo di questo post, potete sedervi con tutta calma sul divano senza interrogarvi, come me, sui due concetti principali intorno a cui penso sia incentrata. Westworld prima di tutto è una capsula del tempo: è un’idea di un grande scrittore purtroppo scomparso, Michael Crichton, risalente ai primi anni Settanta del XX secolo (se volete approfondire, Brian Tallerico su Vulture: “The Long, Weird History of the Westworld Franchise”, 30/09/2016) recuperata da Jonathan Nolan e Lisa Joy. In un parco di divertimenti dove le comparse non sono attori ma androidi qualcosa va storto, cosa accadrà? Se una trama simile vi ha rammentato Jurassic Park ricordo ai più giovani che era un’idea di Crichton anche quella.

A quasi quarant’anni dal suo concepimento Westworld si è però raffinata, ne è passata di narrativa di anticipazione o fantascienza sotto i ponti nel frattempo. Meno Terminator più Blade Runner, la serie della HBO almeno nell’episodio pilota lascia perdere il classico “si sono ribellati, adesso che facciamo” interrogando lo spettatore sui limiti della coscienza degli androidi che interagiscono con gli ospiti paganti dell’ambiente chiuso dove giocano a fare i cowboy o le signore del West. Ci viene spiegato, ad esempio nella scena con Anthony Hopkins e un simil Buffalo Bill, come negli anni ci sia stata una vera e propria evoluzione degli essere cibernetici – che pare siano un’ossessione degli statunitensi, almeno da Disney in poi, ossessione di cui loro stessi sono consapevoli, citofonare Futurama – che li ha portati a essere sempre più umani nel contempo sempre più “macchine” nel momento in cui non funzionano bene.

Westworld, come le stesse serie TV o le narrazioni complesse, è un gioco per grandi, i bambini potete portarveli dietro ma non a caso subodorano subito il trucco, non cascano nella messinscena di uno spettacolo che è sempre tale. Hai abbastanza soldi per lasciare il tuo mondo un giorno o una settimana e “vivere” nel Far West? Puoi farlo. Puoi interpretare un eroe o un fuorilegge, come in un gioco di ruolo dal vivo, e poi tornare a casa dopo aver sfogato tutta la forza delle pulsioni e delle emozioni che nella quotidianità devi reprimere. Westworld però non approfondisce questo aspetto volgendo il suo sguardo agli androidi, esseri condannati e ripetere sempre lo stesso giorno come in “Ricomincio da capo” di Harold Ramis. Il buono deve essere sempre il buono, lo psicopatico lo piscopatico, l’innocente violata l’innocente violata e così via; oppure no, [mini spoiler] qualche androide ha avuto anche ruoli diversi…

Siamo dalle parti così del “cosa fa di te, te?”. Anche gli umani, gli ospiti, all’interno del parco per interagire al meglio con gli androidi devono però seguire delle linee guida, esattamente come chi gioca a un videogioco deve intepretare il personaggio protagonista della storia (sui legami tra questa serie e i videogame vi rimando all’articolo di Davis Cox su Kill Screen: “The videogame world of HBO’s Westworld”, 07/10/2016) Ecco allora il secondo tema di Westworld alla pari di quello della coscienza di sé, la narrazione. Com’è possibile raccontare una storia senza essere per forza di cose dittatoriali, metterti sui binari di quel che lo sceneggiatore ha deciso che è giusto che succeda? Se tutte le storie degli androidi di Westworld sono intrecciate, quanto spazio posso lasciare alla libertà degli ospiti? Esemplare a questo proposito la frustrazione di Lee Sizemore, il “narrative director” del parco, quando [mini spoiler] gli viene rovinata una scena da lui ideata. È davvero tutto concesso a Westworld come recita il sottotitolo della serie per l’edizione italiana?

Se Westworld esistesse davvero, varrebbe la pena andarci? In fondo si tratta di un ambiente sorvegliato ventiquattrore su ventiquattro dove tutto quello che fai viene registrato (Matthew Dessem, “Visiting Westworld Seems Like a Pretty Bad Deal, From a Legal Standpoint”, 12/09/2016, Slate), una realtà dei fatti che chi crede di vivere ancora in un mondo analogoco fatica ad accettare ma che le opere di fantasia più recenti continuano a ribadire. Quanto sono cambiate le storie che ci raccontiamo da quando le storie stesse hanno iniziato a leggere noi attraverso l’accumulo dei nostri dati? Per migliaia di anni le storie sono state solo orali e le abbiamo semplicemente ascolatate, poi le abbiamo confinate in oggetti passivi come i libri, ora ne usufruiamo attraverso una tecnologia ogni giorno più pervasiva e attiva. Quali saranno e cosa diventeranno le storie di domani? All’alba della realtà virtuale (i parchi giochi virtuali in cui i nostri figli si abitueranno ben presto), Westworld inizia a rispondere a questo quesito.

Immagine | Westworld (2016)

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